L’epigrafe che apre Villa Borghese. Progetto estetico inciso nel marmo
L’Osservatore Romano Quotidiano del 17-7-2014
Da qualche giorno è collocata nel salone d’ingresso della Galleria Borghese, prestata dai Musei Vaticani per una esposizione per ora temporanea, una iscrizione latina di particolare interesse.
Non sappiamo perché e a opera di chi quel documento marmoreo è finito nel Lapidario Vaticano. Probabilmente il trasferimento è avvenuto agli inizi del Novecento quando la villa dei Borghese, con tutte le opere d’arte contenute al suo interno, passava in proprietà allo Stato italiano per la somma che allora sembrò vertiginosa di 3.600.000 lire, mentre il Parco sul Pincio affidato in gestione al Comune, diventava il giardino pubblico dei romani.
La lapide collocata in origine all’ingresso della villa che il gran cardinale Scipione Borghese volle colmare di meraviglie (la grande statuaria romana e Gian Lorenzo Bernini, Raffaello e Correggio, Caravaggio e Domenichino) per il piacere suo e dei suoi amici, parla di ospitalità e di felicità, del piacere dei sensi, della gioia dell’intelletto e del cuore di fronte alla seduzione della bellezza della natura mescolata a quella dell’arte.
C’è ignoto l’autore che all’inizio del Seicento dettò il testo, scritto in uno splendido latino che ha la tenerezza luminosa di Ovidio e di Virgilio. Chiunque sia stato (forse lo stesso cardinale Scipione) egli era un genio della sensibilità artistica e insieme della comunicazione, perché ci ha detto, come nessuno ha saputo fare meglio di lui dopo, le ragioni del fascino di Villa Borghese e il modo giusto per attraversarla e per goderla.
Ito quo voles, petito quae cupis, abito quando voles; questo dicono le parole di accoglienza e di benvenuto scolpite nel marmo e rivolte al visitatore: “Gira dove ti pare, chiedi, cerca quello che ami” (petito quae cupis) e poi vattene quando vuoi. Sapendo che quello che hai visto e ammirato dentro la Galleria (Caravaggio e Raffaello, Gian Lorenzo Bernini e il Lanfranco, Annibale Carracci e Rubens, la statuaria romana con il bianco marmo, il nero basalto e il rosso porfido) lo ritroverai nelle chiese e nei palazzi di Roma; Roma che ti aspetta appena fuori Porta Pinciana.
E proprio in questo modo, come ci insegna l’esortazione latina della lapide, che bisogna godere la Galleria Borghese. La quale non è un museo didattico come gli Uffizi (la grande storia dell’arte italiana ed europea raccontata per exempla), non è un museo generalista come i Vaticani dove sono ordinati per sezioni (gli Etruschi e gli antichi Egizi, l’Etnografia e l’Arte Moderna, la statuaria greco-romana e il Rinascimento) i documenti della umana artisticità.
La Galleria Borghese è un’altra cosa. Non è governata da un progetto museografico ma da un collezionismo onnivoro e tuttavia infallibile nel gusto e nella percezione e nella scelta della qualità. L’accumulo prodigioso della Borghese, la sua “meravigliosa confusione”, come scriveva, con una bellissima immagine, lo Haskell, sono la ragione principale del suo fascino. Bisogna perdersi dentro la Borghese, lasciandosi guidare da niente altro che dalla seduzione del luogo e delle cose.
Occorre, come scrive l’esortazione latina, chiedere e cercare, ogni volta, quae cupis, le cose che più ami e che vuoi rivedere.
Questo è vero per tutti. Ogni volta che io torno nella Galleria Borghese voglio rivedere certe cose. Per esempio il levigato splendore delle membra di Dafne che diventano rami e foglie nella statua del Bernini, per esempio il liocorno che la dama di Raffaello stringe in braccio come se fosse un affettuoso gattino, per esempio la Danae di Correggio, capolavoro di squisito erotismo, o il cielo velato di nubi che sta sopra l’incontro fra Tobiolo e l’Angelo, nel noto quadro del Savoldo.
Soffermandomi anche, senza contrasto, senza contraddizione, sui mosaici tardo-antichi che parlano di venatores e di iugulatores: atroci racconti di massacri di belve e di uomini.
Se esiste un luogo al mondo abitato dallo “stupore armonioso”, due parole che sono sinonimo della pura felicità, questo è la Galleria Borghese. Ce lo dice la lapide vaticana ora in esposizione e chiunque potrà facilmente verificare che ciò che li è scritto è perfettamente vero.
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