Senza il Piper Club, Roma non avrebbe vissuto da protagonista la rivoluzione rock degli anni Sessanta, senza locali come il Much More, l’Alien o il Gilda non avrebbe più tardi contratto la febbre del sabato sera, entrando in sintonia con la rivoluzione “disco” dei tardi anni Settanta e Ottanta.
Dietro tutti questi locali, diventate vere istituzioni delle notti romane, c’era l’imprenditore Giancarlo Bornigia, ex concessionario di automobili diventato il re delle discoteche capitoline, morto nella notte tra mercoledì e giovedì a 82 anni dopo una lunga malattia.
La fama e anche la fortuna di Bornigia è senz’altro legata alla prima delle sue imprese, il Piper Club che fondò in un garage di via Tagliamento con l’avvocato Alberigo Crocetta: “Una coppia come si usa dire ben assortita: Crocetta era la mente, Bornigia il braccio operativo” osserva Renzo Arbore, che del Piper fu uno tra i primi animatori. “Bornigia fu uno degli artefici del periodo beat, grazie a lui e Crocetta i giovani assunsero un profilo prima inesistente”.
Dalla sera del 17 febbraio 1965, quando venne inaugurato con un concerto dei Rokes e dell’Equipe 84, il Piper avrebbe ospitato gruppi rock fondamentali, dai Pink Floyd ai Genesis, agli Who: “La sera dell’inaugurazione c’era tutto il mondo dello spettacolo, attori, personaggi televisivi” ricorda Shel Shapiro, “in camerino venne a chiedermi l’autografo una coppia famosa ma che io, inglese sbarcato a Roma ignoravo, Fellini e la Masina. Oggi quasi me ne vergogno”.
Per i ventenni di allora, scendere quella rampa di scale era come entrare in un’astronave piena di luci e di suoni, atterrata a Roma da chissà quale pianeta lontano: un’esplosione di arredi di plastica, di tubi e di luci al neon. C’erano due grandi quadri di Mario Schifano e di Tano Festa proprio sul palco e, lì accanto, campeggiava una scultura di ferro e plastica nello stile della pop art. Il Piper Club ospiò anche opere contemporanee tra cui dipinti di Andy Warhol, alcuni di Schifano e opere di Piero Manzoni e di Mario Cintoli. In quella sala che secondo i progetti avrebbe dovuto ospitare un cinema, erano confluite per una strana coincidenza di fattori tutte le energie creative che il mondo stava producendo in quegli anni. C’era la musica beat, esplodeva lo shake, dominava l’architettura e il design pop.
Crocetta era il direttore artistico. Era lui che selezionava lui i gruppi che avrebbero dovuto esibirsi sul palco, due per sera. Tra i primi a frequentare il Piper c’era una ragazza veneziana, bionda, minuta e carina. Si chiamava Nicoletta Strambelli poi diventata Patty Pravo: “Avevo 15 anni, avevo finito i miei otto anni di Conservatorio e chiesi a mia nonna di andare in Inghilterra ma non sono neanche entrata al college perché a Piccadilly incontrai un gruppo di amici veneziani impazziti per le voci sul Piper. “Ma come, arrivo a Londra e mi volete riportare a Roma?”, dissi. Mi ritrovai su un Volkswagen maggiolino in viaggio verso il Piper: da allora non mi sono più fermata”.
All’esordio suonarono nel locale anche i migliori artisti della beat generation italiana tra i quali i The Rokes, l’Equipe 84 e Le Pecore Nere presto affiancati da Fred Bongusto, Dik Dik, Romina Power, Gabriella Ferri e Rita Pavone. E poi ancora Mal, Renato Zero, Mimi Bertè (successivamente Mia Martini), Loredana Bertè, e Mita Medici. Fu sempre Bornigia, attento al contesto internazionale, a portare per la prima volta in Italia e a Roma grandi artisti come i Rolling Stones, i Genesis, gli Who, i Pink Floyd (il 18 e il 19 aprile 1968) e un giovanissimo Jimi Hendrix. Anche i Who, dopo il concerto al palazzetto, passarono al Piper e improvvisarono un concerto.
I proprietari del Piper successivamente cerearono altri locali frequentati dai giovani come il Gilda e l’Alien.
Fonte: la Repubblica
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