“Qualche parola su piazza Euclide” di Andrea Ventura e Pietro Rossi Marcelli

Siamo a Piazza Euclide, la piazza dei Parioli che ospita la mastodontica chiesa del Cuore Immacolato di Maria, un’area piena di storie sorprendenti e inaspettate, come, del resto, lo è un po’ tutta quella grande porzione di Roma che si estende a settentrione fuori le Mura Aureliane

Quella che i viaggiatori del “Grand Tour” chiamavano “Roman Campagna” e della quale noi possiamo avere una vaga immagine vedendo il Parco archeologico dell’Appia Antica, in realtà si estendeva tutt’intorno alla cinta muraria della città, con un aspetto omogeneo di campi coltivati, boschi, radure.

Anche i luoghi dove ci troviamo ora, pur non essedo stati preservati come parco, fino a poco più di cent’anni fa offrivano un paesaggio bucolico e non sono meno importanti dal punto di vista storico e archeologico.

Ce lo conferma il numero altissimo quadri di paesaggio di grandi pittori europei, come Claude Lorraine a William Turner, che ritraggono scene dei Monti Parioli e della valle del Tevere a nord di Roma, e proprio questa opere d’arte ci spingono ad approfondire la conoscenza della storia, piuttosto singolare e poco conosciuta, di questa porzione di campagna romana.

Le sedici porte delle mura Aureliane, frettolosamente edificate dagli imperatori Aureliano e Probo nella seconda metà del terzo secolo d.C, davano e danno tuttora accesso “a raggiera” ad altrettante strade extraurbane (deriva da lì il famoso detto “tutte le strade portano a Roma”) più o meno importanti lungo le quali, nei secoli, si era avuta, dove più dove meno, la medesima evoluzione nell’uso del territorio.

Anche se ogni strada acquisisce nei secoli una sua determinata caratteristica che la differenza dalle altre, infatti, lungo tutte sono:

  • localizzate tombe pagane (prima) e catacombe (dopo);
  • costruite edicole, chiese, chiesupole e basiliche cristiane (spesso riutilizzando tombe pagane);
  • realizzate proprietà rurali, le cosiddette vigne o ville, che avevano una dimensione dai 10 ai 20 ettari circa.

In particolare, queste proprietà di dimensioni contenute (le vigne e le ville) formavano una cintura compatta intorno alle Mura Aureliane per una profondità di circa uno o due miglia.

Al di là di questa cintura di “piccole” proprietà, c’erano le “tenute” agricole che avevano un’estensione dai 100 ai 300 ettari, più o meno.  Queste tenute che oggi sono in gran parte scomparse o ridotte in estensione, hanno danno il nome a tutti i quartieri e borgate periferiche di Roma (Centocelle, Pietralata, Tufello, Casal del Marmo, Casal de’ Pazzi, Tor Bella Monaca ecc.).

Le ville erano sia luoghi di “delizia” (cioè di villeggiatura) ma anche di caccia e di coltivazioni orticole e frutticole. Avevano quindi un “casino” padronale e una serie di annessi rurali in mezzo a campi, frutteti, boschi.  Le vigne invece non avevano il casino per ospitare i padroni ma tutte le caratteristiche per essere un’azienda agricola profittevole.

Ebbene, qui a piazza Euclide noi ci troviamo lungo una strada antichissima che che portava alla Sorgente dell’Acqua Acetosa e in una valle in cui si affacciavano diverse ville che elenchiamo partendo dalla più recente e procedendo in ordine orario:

Alcuni confini di queste vigne erano costituiti da viottoli, percorsi dalle greggi e  frequentati da contadini, pastori (e, alcune volte, briganti) e questi antichi percorsi formano buona parte del reticolo tortuoso delle strade strette dei Parioli che connettono tra loro le diverse alture.

Ma quali sono questa alture? Procedendo in senso orario e partendo da quella più lontana:

Quella strada è stata uno dei percorsi dell’antica via Salaria Vetus, una tratturo  precedente alla fondazione di Roma che serviva ai Sabini per svernare le greggi nei miti inverni delle aree costiere e rifornirsi di sale con cui trasformare il latte in formaggio pecorino.

Lungo diversi percorsi dell’antichissima via del sale, greggi e pastori partivano dai paesi sulle alture della Sabina, scendevano al grande fiume, che oggi chiamiamo Tevere, e lo costeggiavano seguendo la corrente.  Nel percorso dovevano guadare diversi affluenti tra cui quello che oggi chiamiamo Aniene.  Da lì la strada si inerpicava sul colle dove sorgeva la città di Antenne e con un percorso studiato per non perdere quota, arrivava al colle che oggi chiamiamo Quirinale, per poi ridiscendere al fiume e seguirlo fino al mare.

La fondazione di Roma e il suo imporsi sui villaggi vicini con l’episodio che la mitologia ci ha tramandato con il nome di Ratto delle Sabine, non cambierà queste abitudini millenarie.  Ma il suo sviluppo nei secoli successivi trasformerà questo tratturo in una delle strade “extra-urbane” necessarie a Roma per muoversi rapidamente intorno o all’Urbe e avere il controllo del territorio intorno.  A conferma dell’importanza strategica di questa via, qualche secolo dopo sul guado dell’Aniene verrà costruito Ponte Salario.

costeggiava lla foce del Tevere, passava dove poi sarebbe sorta Roma, e poi si arrampicava sul colle Pincio fino ad arrivare in corrispondenza di Porta Pinciana (realizzata successivamente con la realizzazione delle mura Aureliane) da cui usciva via Pinciana che è, appunto la via Salaria Vetus.  Lo scopo di questa strada era arrivare al guado sull’Aniene dove ora c’è Ponte Salario ed entrare nel territorio Sabino vero e proprio per poi attraversare gli Appennini e arrivare all’Adriatico a Porto d’Ascoli.

Fino alla guerra che seguì il Ratto delle Sabine, la Salaria seguiva un percorso lungo via Paisiello, viale Romania, via di San Filippo Martire, passava per la città di Antemnae, che sorgeva dove ora c’è Forte Antenne, per poi scendere sul guado che c’era dove adesso sorge il ponte sull’Aniene; dopo la distruzione di Antemnae, la Salaria Vetus raggiungeva il ponte s costeggiando la riva sinistra del Tevere, cendendo verso l’Acqua Acetosa earrivando così alla confluenza con l’Aniene e quindi al guado. Solo in età imperiale, quando è tracciata la Salaria Nova,  il percorso diventa quello della via Salaria che conosciamo oggi.

L’altro viottolo storico ed importante che arrivava direttamente a piazza Euclide era proprio questo: via Civinini. Il percorso era quello seguito dalle greggi per passare dalla Flaminia alla Salaria (o, meglio, nell’ottocento, viceversa, per raggiungere la Flaminia e porta del Popolo dove c’era il Macello, partendo da Ponte Salario), si staccava da Via Flaminia all’altezza di Via di Villa Giulia e si chiamava Via dell’Arco Oscuro a causa di una piccola “galleria”, l’Arco Oscuro appunto, che da davanti Villa Giulia sbucava vicino a Piazza Don Minzoni dove c’era una famosa osteria “Fuori Porta” che si chiamava Forte Adigrat.

Da Piazza Don Minzoni, il vicolo dell’Arco Oscuro scendeva per via Luciani ed arrivava a congiungersi con il percorso della Salaria Vetus dove ora c’è Piazzale della Rimembranza per poi arrivare all’Acqua Acetosa e quindi ricalcare l’antico percorso fino al Ponte.

Nonostante l’Arco Oscuro fosse un famoso luogo di appostamento dei Briganti da strada, il viottolo era frequentato da molti viaggiatori del “Grand Tour” primi fra tutti Goethe (Francoforte 1749 – Weimar 1832) che soggiorna a Roma nel 1786 e nel 1787 che il 5 luglio 1787,  annota:
Domattina, allo spuntar del giorno andrò all’Acqua Acetosa, una fontana d’acqua acidula, distante circa mezz’ora dalla mia casa, e berrò l’acqua che ha il sapore di una debole acqua di Schwalbacher, ma che è già molto efficace per questo clima.

E ancora il 18 agosto scrive: Ieri, prima del levar del sole sono andato all’Acqua Acetosa; c’è proprio da diventar matti quando, specialmente da lontano, si vede la chiarezza, la varietà la luminosa trasparenza e le diverse tonalità del paesaggio.

E poi Ludovico I di Baviera (Strasburgo, 25 agosto 1786 – Nizza, 29 febbraio 1868) che nel 1821 fa romantiche passeggiate fino a questa fontana con la sua amante Marianna Bacinetti. per chi vuole approfondire https://www.primapaginanews.it/articoli/palazzo-torlonia-la-storica-vicenda-amorosa-tra-il-re-di-baviera-ludwig-i-e-la-contessa-marianna-florenzi-486024

Tra qui e la Piazza l’unica architettura veramente degna di nota è la Chiesa del Cuore Immacolato di Maria di Armando Brasini che sorge sulla piazza. Ma non crediamo che non vi siano “palazzine” o altre architetture degne di nota intorno a noi. Ad esempio, il palazzo sotto cui stiamo è un “intensivo”, termine coniato nel Piano Regolatore del 1931 che sostituiva quello di “fabbricato” che identificava un edificio alto circa 26 metri, senza giardino e costituito da appartamenti e negozi sottostanti. Noi ci troviamo “al confine” tra le palazzine e gli intensivi che circondano la piazza. Sul come sia successo che un quartiere di palazzine sia finito ad ospitare intensivi ne parleremo quando saremo sulla piazza.

Questo “intensivo” è del 1934 ed è di un architetto che si chiama Gaetano Rapisardi (1893 – 1988) che, nonostante fosse il genero di Coppedé non seguì le orme stilistiche del suocero, ma piuttosto collaborò con Piacentini alla realizzazione degli edifici della Facoltà di Lettere e Filosofia nella città universitaria. L’opera più “vista” da tutti noi di questo architetto è il Palazzo di Giustizia di Palermo, che noi vediamo ogni volta che c’è un processo di mafia.

La casa sotto cui ci troviamo è un classico prodotto dell’architettura razionalista di Rapisardi che aveva studiato e visto da vicino la Bauhaus di Walter Gropius a Dessau. Questa grande costruzione, denominata  “casa De Zanetti”, forse dal nome del costruttore, è un blocco compatto dallo sviluppo oblungo segnato alle estremità della facciata principale dallo scavo di una doppia pila di logge sovrapposte che trovava il proprio corrispettivo, lungo il fronte posteriore, nelle due colonne di balconi. Per chi vuole approfondire https://it.wikipedia.org/wiki/Gaetano_Rapisardi ed anche https://www.treccani.it/enciclopedia/gaetano-rapisardi_%28Dizionario-Biografico%29/

E adesso incominciamo con le sorprese. Questa doppia scalinata che incrocia due volte via Archimedesi chiama via del Monte Pelaiolo, in onore dei Monti Parioli, ma questa collina, in realtà si chiama Monte San Valentino. Ad essere pignoli il monte Pelaiolo, anzi Peraiolo, sarebbe il Monticello dove i Gesuiti avevano un Pereto. Ma del resto, gli alberi di Pero erano frequenti un po’ in tutte le vigne del circondario. Quindi da Peraiolo a Parioli il passo è breve.

Il Monte San Valentino si chiama così perché si sapeva che ai suoi piedi, presso la Via Flaminia, sorgeva una grande basilica dedicata a questo martire. Valentino fu martirizzato a Roma il 14 febbraio del 270 sotto l’Imperatore Claudio il Gotico, predecessore di Aureliano. Il santo fu decapitato al “secondo Miglio” della Flaminia dove fu sepolto. Nel secolo successivo Papa Giulio I ne volle perpetuare la memoria con la costruzione di una basilica sul sito della sua sepoltura. La tomba del Santo viene isolata dalla necropoli in cui si trovava e resa più visibile, per favorire l’accesso dei pellegrini. Poi nel medioevo, in circostanze poco chiare, il corpo fu preso e trasportato a Terni, città della quale è patrono.

Nel 496 Papa Gelasio I istituisce la festività dedicata al santo nel giorno dei lupercalia, una festività romana che si celebrava nei giorni nefasti di febbraio dal 13 fino al 15 del mese. I Lupercalia sono l’antichissima festa romana che ha poi generato il “Carnevale” ed erano riti propiziatori purificazione e fertilità. Nel vecchio calendario romano, febbraio era l’ultimo mese dell’anno ed i Lupercalia erano la festa in onore di Fauno (il Pan greco), dio dei boschi, delle campagne e delle greggi, i cui riti venivano officiati da una confraternita di sacerdoti chiamati Luperci. I Luperci si riunivano nella grotta del Lupercale dove, secondo la leggenda, Romolo e Remo, sarebbero stati allattati dalla lupa. In questo luogo  i Luperci sacrificavano delle capre e un cane (che simboleggiava il Lupo). Con le pelli delle capre e del cane, tagliate in sottili strisce, i Luperci fabbricavano delle fruste, chiamate februa cioé oggetti del februare che vuol dire “purificazione” nel latino arcaico.

Poi, completamente nudi tranne che per un perizoma di pelle di capra sui fianchi, iniziavano una folle corsa brandendo le fruste e colpendo tutti quelli che incontravano in particolare le donne che, offrendosi alle scudisciate, speravano così di assicurarsi la fertilità. sull’origine di questo rito Ovidio, nei Fasti, spiega che l’origine dei Lupercalia, risale al tempo di Romolo, quando le donne sterili si recarono in un bosco sacro a Giunone per pregare la dea e ottenerne la guarigione. Un indovino etrusco vaticinò che solo un caprone le avrebbe rese feconde; quindi uccise un caprone, lo scuoiò e ne tagliò la pelle in strisce sottili, con cui toccò le donne, che divennero nuovamente capaci di procreare. Per chi vuole approfondire https://www.tibursuperbum.it/ita/note/romani/Lupercali.htm ed anche https://cronistoria.altervista.org/i-lupercalia-e-la-purificazione-del-popolo-romano/ e inoltre https://geabracciali.com/festivita-pagane/lupercalia/

Oggi di questa struttura alto medievale restano solo due absidi, mentre poco distante si aprono ancora alcuni degli ambienti della catacomba collegata alla memoria del Santo martire. Di questa Basilica, abbandonata fin dal Medioevo aveva trovato alcuni ruderi nel 1595 proprio il proprietario della villa che stava sopra il Monte San Valentino. Questo signore si chiamava Antonio Bosio e si era già infilato nelle grotte della montagna sotto la propria villa scoprendo le Catacombe di San Valentino. per chi vuole approfondire https://mail.google.com/mail/u/0/?ogbl#search/san+valentino/FMfcgxwLtZnhWDSfDRvCpBFHgBrpWJGc

Antonio Bosio è il “Cristoforo Colombo” delle Catacombe romane ed infatti le ha mappate e scoperte quasi tutte. E molte sono intorno a noi, oltre a quelle di san Valentino, sul colle del Monticello, vale a dire più o meno sotto via Barnaba Oriani c’era (perché è scomparsa ed obliterata fin dal medioevo) la Catacomba “ad clivum Cucumeris” descritta in una guida del VII secolo ma non trovata neanche da Antonio Bosio, e poi, sotto via Bertoloni c’è la Catacomba di Sant’Ermete, visitata e rilevata sempre da Antonio Bosio nel 1608 con Basilica, cripta e cimitero affrescati. Questa Catacomba non è illuminata e non è visitabile se non a caro prezzo ed in numero molto ristretto. Insomma i Parioli sono pieni di catacombe ed ipogei, pensate che c’è un ipogeo anche sotto Villa Glori. Ma torniamo a San Valentino: perché è il santo degli innamorati e perché sta qui?

Qui inizia la seconda straordinaria sorpresa.

Nell’Eneide Virgilio ci racconta che Enea, prima di arrivare in Italia e sposare Lavinia si fermò a Cartagine, sedusse la regina e fondatrice della città, Didone e poi, “agendo da gran cialtrone” la mollò disperata. Didone si suicida davanti a sua sorella Anna. Questa Anna, dopo diverse peripezie arriva in Italia da Enea, e, naturalmente fa ingelosire Lavinia. Anna fugge e si butta in un fiume diventando la ninfa delle acque di una fonte “perenne” da qui il nome di Anna Perenna. Questa ninfa è una delle divinità tradizionali dell’antica Roma. Anna Perenna viene identificata come la divinità della fertilità, dell’abbondanza, delle buone messi, e quindi della fortuna. La sua festa viene fatta coincidere con l’inizio della primavera che per i Romani ed i Sabini era il 15 marzo (le Idi di Marzo!) e quindi anche il Capodanno. Secondo un altro pezzo di leggenda, Anna Perenna si era anche trasformata in una buona contadina che quando nel 494 a.C. i plebei si rifugiano sul Monte Sacro, prima dell’intervento pacificatore di Menenio Agrippa, sfama i ribelli infreddoliti, venendo così identificata con la divinità prorettrice del Popolo Romano, tanto che la sua festa, con inizio dell’anno è festeggiata con abbondanti libagioni e stravizi. Per chi vuole approfondire https://www.romanoimpero.com/2010/01/culto-di-anna-perenna.html

ed anche https://www.ilbosone.com/anna-perenna-dea-romana/

Ora tutta la letteratura romana antica da Ovidio a Tito Livio fino a Macrobio (nel 400 d.C) parlava di una famosa “Fonte” di Anna Perenna vicino al Tevere e vicino a colline boscose dove, specie alle Idi di Marzo, cioè per Capodanno, i romani andavano a dissetarsi, fare baldoria ed accoppiarsi (letteralmente infrattarsi). Erano specialmente le matrone a dissetarsi per poter essere fertili. Questa Anna Perenna era talmente importane e venerata dai romani che la sua testa compare su moltissimi denari Romani d’argento, dell’epoca repubblicana. Era chiaro, quindi che la fontana doveva esistere, ma nessuno riusciva a trovarla.

Finché, nel 1999 i clarettiani della Basilica del Cuore Immacolato di Maria su Piazza Euclide, non vendono una striscia di terra lungo via Guidobaldo dal Monte, dove sorgeva uno scalcagnato campo di bocce. L’acquirente è un costruttore che decide di fare sull’area un parcheggio sotterraneo. Il parcheggio è quello dove c’è il ristorante Cinese “all you can eat”. Le ruspe incominciano a scavare finché a circa 8 metri di profondità non trovano una cisterna romana e nella migliore delle tradizioni dei palazzina romani cominciano a tentare di distruggerla per evitare “fastidi”.  Se non che il reperto è troppo grosso e, com’è come non è, arrivano gli archeologi  della Soprintendenza che su un cippo già scalfito dai denti della ruspa leggono: «NYMPHIS SACRATIS ANNAE PERENNAE» !! Non solo, ma le storie di quartiere dicono che la falda idrica che alimentava la fontana era ancora attiva. Questa falda idrica era alimentate dalla “marana” che si vede in alcune vecchie foto aeree che scende giù per via Chelini.

Il ritrovamento è eccezionale anche perché giustifica la presenza della catacomba di San Valentino e della Basilica (che è stata ritrovata nel 1888 scavando il costone della montagna per aprire il tratto finale di Viale Parioli – ora Viale Pildsusky), in quanto la fontana era propizia alla fertilità e quindi agli accoppiamenti che avvenivano nelle colline boscose circostanti che si identificano con i Parioli, luogo di baldoria e probabilmente permette anche una lettura di tanti altri ritrovamenti archeologici dei dintorni, non ultimo quello della villa sub urbana sotto l’Auditorio. San Valentino viene martirizzato qui proprio perché tentava di santificare con il matrimonio le unioni degli innamorati che si rivolgevano ad Anna Perenna.

Ed ora la terza sorpresa, che si trova “sotto” la Basilica del Cuore Immacolato di Maria.

Questa chiesa, enorme, sorge sopra i terreni che erano stati degli agostiniani. Nel 1917, quando ancora non era stato costruito quasi nulla ai lati del grande viale che congiungeva la Salaria con la Flaminia, ma che già si chiamava Viale dei Parioli, i membri della “Società Quartiere Valle Giulia” pregano il barone Carlo Monti (1851 – 1924), che allora, seppur da privato cittadino, passava per essere il vero ambasciatore presso la Santa Sede, di fare da tramite, per offrire al suo antico compagno di università, il Papa genovese Benedetto XV Giacomo Della Chiesa, un vasto terreno nella zona dei Parioli, per erigervi una chiesa, progettata dall’arch. Armando Brasini, da dedicarsi a S. Giacomo (nome del Papa).

Lì per lì il Papa rifiuta perché il quartiere è ancora deserto, ma due anni dopo, nel 1919  scrive a Brasini e lo prega di procedere con il progetto.

Siamo nel ’19, prima quindi sia dell’avvento del fascismo, che della firma dei Patti Lateranensi, tuttavia il  progetto originario di Brasini, che sarà più e più volte sia modificato che interrotto e ripreso, va contestualizzato da tre fatti importanti: 1. che la nuova chiesa doveva essere la parrocchia di un grande, moderno quartiere, tutto da costruire; 2. che tra il 1870 ed il 1920 erano state realizzate sì una cinquantina di chiese a beneficio della nuova capitale, ma Roma non aveva ancora visto un grande tempio degno di una nascente metropoli, e l’avvicinarsi del Giubileo del 1925 era un’occasione importante; 3. che Brasini voleva “dire la sua” sull’impronta da dare a Roma.

Questo terzo punto non è secondario perché fin dal 1870 si era dibattuto su come realizzare una nuova, moderna capitale. Fino all’avvento del sindaco Nathan i grandi proprietari terrieri, leggi la nobiltà romana ed il clero, avevano “guidato” il massacro delle ville dentro le mura, realizzando la “Roma Umbertina” in uno stile che oscillava tra il neo-barocco e l’eclettico che genererà il “barocchetto romano” contrapposto al razionalismo della Bauhaus. Si erano così realizzati i ministeri ed i lungoteveri di Raffaele Canevari, con la relativa distruzione delle due rive del Tevere. Tutto ciò non aveva impedito un dibattito “colto” tra architetti e ingegneri, romani e no, primo tra tutti Camillo Boito, fratello di Arrigo che nel 1911 pensa ad uno “stile italiano”: e così Sacconi realizza l’Altare della Patria voluto da Zanardelli, Calderini fa (a metà!) il “Palazzaccio” e Gaetano Koch realizza la piazza più grande di Roma, Piazza Vittorio, solo per citare le cose più importanti. Senza parlare di Gino Coppedé e del suo eclettismo.

Brasini che, fino al 1919 non aveva ancora fatto molte cose, essenzialmente solo il “Giardino Zoologico” per l’esposizione universale del 1911 e la sua “casa torre” sulla Flaminia, pensa in grande. E per questa Chiesa pensa ad un “segno” importante da dare nel paesaggio. Quindi immagina una grande ed alta cupola che si veda entrando a Roma. Il progetto prende forma ed il Papa, nel 1923, ne affida la realizzazione ai missionari clarettiani, che la posseggono tutt’ora, i quali avevano i fondi per realizzare una grande basilica grazie ad ingenti finanziamenti provenienti dal Canada, cambiando però la dedica al Cuore Immacolato di Maria.

Il primo progetto di Brasini, ispirato alle grandi costruzioni della Roma Imperiale e Papale, era a pianta circolare a croce greca, al cui centro si elevava una cupola posata su quattro grandi pilastri, svettante all’esterno per 97 metri. Le dimensioni della cupola a doppia volta avrebbero sorpassato quelle delle più grandi cupole del mondo. Per intenderci la cupola di San Pietro è alta 129 metri, mentre quella di San Carlo al Corso è di 67 metri e quella di San Pietro e Paolo all’EUR è di 75 metri.

Intorno alla cupola quattro navate larghe m.15 formavano la croce greca; si ricollegavano al vaso centrale circolare, del diametro di m.52 all’interno, dal quale si accedeva a quattro grandiose cappelle circolari di m.11 di diametro, alte m. 15. In confronto il diametro della Cupola di San Pietro è di 41,5 mt e quello del Pantheon è di 43 metri. La lanterna era ricavata fra le due volte (m. 85 alla base della lanterna; m. 97 alla palla della lanterna, mentre fino al culmine della croce si misuravano m.115). Il catino absidale era sorretto da dieci colonne scanalate; ai lati del transetto due grandi nicchioni completavano la croce.

Il progetto prevedeva quindici altari: l’Altare Maggiore molto sontuoso, dedicato al Cuore Immacolato di Maria nell’abside; due altari nelle cappelle rotonde e due nella navata d’ingresso; altri quattro altari minori si elevavano nelle nicchie della navata circolare, oltre ai due delle cappelline. La facciata principale guardava verso Sud, verso la piazza con un grande pronao composto di pilastri, con addossate 14 colonne doriche di m. 1,45 di diametro ciascuna. All’interno si prevedevano colonne d’ordine corinzio, di marmo di Carrara con fondi delle pareti intramezzati da marmi scuri e di bassorilievi.Tutto il tempio all’esterno sarebbe stato in travertino e in cortina a tutto spessore. La mole del progetto di questo “secondo San Pietro” risultò presto irrealizzabile perché il terreno era formato da banchi di sabbia, ghiaia e detriti e solo a grandi profondità si raggiungevano strati argillosi che davano affidamento.

Di fronte a queste difficoltà l’arch. Brasini fu costretto ad apportare le prime profonde modifiche al suo progetto, per alleggerire il peso dell’architettura e renderla anche meno costosa. Il progetto definitivo del 1931 prevedeva le dimensioni della cupola ridotte alla metà , le quattro cappelle si aprivano su una navata circolare, che a mo’ di catino metteva in comunicazione le due navate. In questa nuova conformazione la cupola risultava alta: dal tamburo al centro della palla m. 45 e m. 85 dal piano terra. L’interno acquistò un grandissimo effetto con la navata lunga m.84, larga m. 16 e alta m. 25, collegata dal passaggio circolare, dove diagonalmente si aprivano le quattro cappelle.

Nel frattempo il 20 maggio del 1924 era stata posta la prima pietra mentre, all’approvazione del progetto definitivo, nel 1931, fu indetta la gara d’appalto vinta dall’Impresa Fratelli Ciardi & Ciardi di Roma, che nel 1932 inizia i lavori delle fondazioni inserendo nel terreno 2.000 pali di cemento profondi dai 15 ai 25 metri.  Nel 1933, ultimate le fondazioni dell’abside e di due grandi cappelle, si inizio con le fondazioni dei quattro piloni centrali della cupola. A metà ottobre 1934 la cripta lunga  42 metri e larga 16 viene inaugurata. Dopo una dolorosa interruzione dovuta alla guerra di Spagna del 1936, nel corso della quale i clarettiani persero ben 270 appartenenti alla congregazione di cui 51 seminaristi trucidati dalle milizie repubblicane a Barbastro, i lavori ripresero fino al 1940 quando si dovettero interrompere per circa un decennio a causa della seconda Guerra Mondiale. Sarà ripreso solo nel 1950 per terminare, provvisoriamente, e senza cupola, nel 1953.

Alla fine la chiesa si presenta all’esterno con un ampio pronao, sorretto da colonne in travertino e sormontato da un frontone con la dedicazione della basilica. Lungo tutto il perimetro esterno della grandiosa costruzione, vi sono 28 colonne tuscaniche alte 12 metri Econ un diametro di 1,5 metri (per intenderci le colonne delle terme di Diocleziano cioè di Santa Maria Maggiore, che sono le più alte di Roma sono di 14 metri o, meglio 17 metri con capitello e trabeazione e con il  diametro di 1,62 metri, solo che sono monoliti di porfido). Le fiancate laterali e la parte esterna dell’abside sono movimentate da lesene in travertino e nicchie semicircolari vuote. Di quella che sarebbe dovuta diventare la grandiosa cupola non resta che lo zoccolo del tamburo in mattoni con quattro piccole finestre quadrate con cornici in marmo.

L’interno è un misto di croce greca e di croce latina, con quattro grandi cappelle laterali ed un ampio nartece iniziale; è lunga 94 m., larga 58 m. (praticamente le dimensioni della Cattedrale di San Patrizio a New York). Le cappelle, a pianta ottagonale e illuminate ognuna da una lanterna, sono dedicate a san Giuseppe (prima a destra), al santissimo Sacramento (seconda a destra), al perpetuo suffragio (prima a sinistra) e alla Madonna di Pompei (seconda a sinistra). In quest’ultima cappella sono esposti i bozzetti del Brasini delle statue dei quattro evangelisti che avrebbero dovuto ornare l’esterno della chiesa, ma che poi non furono mai realizzate.

Il battistero si trova in fondo al nartece, sulla sinistra, ed accoglie cinque quadri di Gregorio Sciltian (1900-1985), raffiguranti San Giovanni Battista che battezza Gesù e quattro Angeli.

I quadri del Battistero, erano stati dipinti per la Chiesa dell’ “Autostrada” a Firenze, di Giovanni Michelucci ma non si inserivano bene nell’insieme, e quindi, dopo una lunga trafila furono assegnati alla Chiesa di Piazza Euclide.

La personalità di Gregorio Sciltian (Rostov 1900 – Roma 1985) è piuttosto controversa in quanto il suo realismo pittorico inganna i profani propensi a combattere l’arte informale, ma affascina chi trova nei suoi “trompe l’oeil” e nei suoi ritratti iperrealisti una rappresentazione dell'”Illusione della realtà”. (per chi volesse approfondire consiglio di leggere http://www.occhioquadrato.it/wp-content/uploads/2014/11/Concept-della-mostra_SCARICA-IL-PDF.pdf )

L’ampia abside è introdotta dall’arco trionfale sorretto da due colonne corinzie. Al centro di essa vi è l’altare maggiore, sormontato da un mosaico che raffigura il Cuore di Maria, affiancato da due angeli marmorei a grandezza naturale. Il tabernacolo, di carattere monumentale, riproduce la facciata della basilica.

Nella cripta sono esposti quadri poliscenici di Fulgenzio Martinez con la rappresentazione di diversi episodi del Nuovo Testamento.

Nella basilica si trova l’organo a canne Mascioni opus 689, costruito nel 1954 e collocato in tre nicchie nell’abside, dietro l’altare maggiore. Lo strumento, a trasmissione elettrica, dispone di 49 registri; la consolle, ha di tre tastiere e pedaliera concavo-radiale.

Ci sfugge però un dettaglio: le fondazioni di una chiesa come questa, anzi, di come l’aveva progettata Brasini nel 1931, con la cupola che sarebbe dovuta essere alta 85 metri, richiedevano, specie in un terreno sabbioso come quello sotto i nostri piedi, dimensioni poderose. La cripta lunga m. 42 e larga 16, occupa solo un terzo delle fondazioni totali, ma la parte centrale, che doveva appunto sorreggere la cupola è una seconda basilica sotterranea con soffitti a volta alti 6,50 mt. Una cattedrale sotto la Basilica. Negli anni ’50 e ’60 qui si svolgevano funzioni da oratorio, ma lo spazio era praticamente inutilizzato. Poi nel 1969 Ennio Morricone, Armando Trovajoli, Luis Bacalov e Piero Piccioni con il produttore discografico Enrico De Melis fondano “Il Forum Music Village”. Uno Studio di registrazione che può accogliere un’intera orchestra sinfonica e  che, grazie allo spessore ed alla configurazione delle mura dei sotterranei della chiesa permette di avere un suono inconfondibile ed è conosciuto in tutto il mondo grazie agli illustri aritisti che ha ospitato ed ha guadagnato di diritto il titolo di migliore sala d’incisione d’Italia. Grazie alla sua ottima location e incredibile ampiezza, la sala è stata ed è tutt’oggi teatro di svariate iniziative tra cui concerti live e rassegne musicali, mantenedo sempre alto il livello di qualità e professionalità dell’intera struttura.

Inoltre, nel 2020 il Forum Village acquisisce anche il Teatro Euclide, ex sala parrocchiale e ne fa il Forum Theatre, il primo teatro immersivo e multidisciplinare nel centro della capitale. Si può quindi dire che non c’è musicista o regista al mondo che non conosca questa chiesa. Per chi vuole saperne di più https://www.forumstudios.it/it/

Comunque, questa chiesa è certamente più conosciuta dagli architetti americani che da quelli italiani. Infatti il grande architetto Bob Venturi (1925 – 2018), teorico dell’architettura postmoderna, nel suo libro/manifesto Complexity and Contradiction in Architecture giudicato  “probabilmente il più importante testo di architettura da Vers une architecture di Le Corbusier, del 1923″ prendendo le mosse da una dichiarazione categorica: l’autore ama ed è fautore di una architettura complessa e contraddittoria, Giudica l’opera di Brasini ed in particolare questa chiesa:

una sinfonia architettonica armonica e dissonante di elementi stratificati complessi — formali e simbolici, magistralmente definiti da ombre e ombreggiature, che combinano retorica e sostanza, fanfara barocca in stile palladiano, e le cui giustapposizioni — o meglio, collisioni — di curve, rettangoli , diagonali — come colonne tozze, pilastri grossolani, contrafforti inutili, muri e vuoti eloquenti, tamburo senza cupola,  frontone segmentato sporgente e sfuggente — devono alla fine comporre in epoca fascista un glorioso gesto finale di quella che può essere considerata una sopravvivenza barocca.

Per chi vuole approfondire https://www.doppiozero.com/materiali/robert-venturi-architetto-gioioso

Infine due parole sulla piazza, una piazza non piazza dove c’è una chiesa che, psicologicamente, respinge invece di accogliere, senza un unico centro di aggregazione e comunque, troppo piccola per le dimensioni della chiesa. Una progettazione seria di questa porzione dei Parioli avrebbe imposto che la piazza , circondata da palazzine e non da alti fabbricati, si fermasse più o meno alle scalette dove abbiamo iniziato la passeggiata. Ma siccome negli anni ’30 la chiesa non era ancora terminata, gli urbanisti del Comune hanno pensato di arrivare fino al limite della chiesa che “forse” non sarebbe mai stata terminata. Così la piazza è piccola, disomogenea e anonima, la chiesa è imponente e staccata dal resto degli edifici che la circondano, ed al momento incompiuta. Non è detto che ad un certo punto i Clarettiani no trovino le risorse per completare la chiesa. A quel punto l’effetto sarà veramente di un piazza soffocata dalla chiesa.

Andrea Ventura

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Piazza Euclide

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