In questa ultima puntata del racconto Quando ai Parioli c’erano i campi … di Giovanna Alatri parliamo di Giovanni Cena che abitava ai Parioli, sul vicolo di San Filippo. Questo stradello iniziava dal vicolo dei Parioli o via Parioli (oggi via Giovanni Paisiello) e correva sulle attuali via Emilio de’ Cavalieri, viale Romania, via Mafalda di Savoia, via di San Filippo Martire) che seguivano il tracciato dell’antica via Salaria.
Giovanni Cena, nato nel 1870 a Montanaro, un paesino del Piemonte, primogenito di una famiglia di modeste condizioni economiche – il padre tessitore, la madre casalinga – appena completata la scuola elementare fu iscritto dal padre in uno ospizio religioso quasi gratuito di Torino, il Cottolengo, perché proseguisse gli studi ginnasiali; da questo primo istituto Giovanni passò poi in un Seminario di Ivrea, probabilmente con la speranza coltivata dal padre che diventasse prete; ma dopo i troppi e troppo tristi anni trascorsi negli istituti religiosi, di cui conservò per tutta la vita ricordi cupi e dolorosi, era giunto alla ferma convinzione di non volere diventare sacerdote, ma di volersi dedicare all’arte, alla poesia e alla letteratura. A costo di grandi sacrifici frequentò a Torino la facoltà di Lettere e Filosofia, cominciando a scrivere prose e poesie e a collaborare a giornali e riviste, facendosi presto apprezzare nell’ambiente culturale della città, e non solo, entrò in amicizia con molti letterati e artisti.
Dopo brevi soggiorni in Francia e in Inghilterra, poi in alcune città italiane, Cena si trasferì a Roma chiamato da Maggiorino Ferraris, proprietario e direttore della Nuova Antologia, a lavorare come redattore capo della prestigiosa rivista di scienze, lettere e arti. A Roma, che gli apparve subito bellissima, si sentì a proprio agio come non gli era mai capitato altrove: «Solo Roma mi accolse, – ha scritto – la città dove nessun uomo è straniero…»(1) ; Cena aveva subìto il fascino non solo della capitale ma anche del suo territorio: «La singolare bellezza della campagna romana – scriveva – non sta tanto nei motivi d’uomini e di animali, di ruderi e di angoli orridi e selvaggi, quanto nel panorama, nella sintesi delle linee amplissime, trasformantisi continuamente come il cielo. Vista dalle alture al tramonto sembra un mare in tempesta subitamente pietrificato. Qualche torre o acquedotto rompe le linee orizzontali predominanti, qualche seno del Tevere tortuoso luccica in lontananza e la cupola di Michelangelo da ogni distanza, fino a quaranta, cinquanta chilometri segna il punto dov’è Roma. Sartorio, Coleman, Damerini, hanno ritratto nobilmente molti bei motivi, ma il Segantini della campagna Romana ha ancora da venire. »(2)
E proprio la Campagna romana con i suoi abitanti, sarebbe diventata di lì a poco l’oggetto primo degli interessi di Cena e del suo totale impegno umano, culturale e civile. Tutto era cominciato con l’adesione all’iniziativa sanitaria, educativa e sociale nata a favore delle popolazioni rurali dell’Agro romano(3): nel 1904, accompagnando l’amico Angelo Celli impegnato, con il concorso della Croce Rossa, nella lotta contro la malaria tra i lavoratori delle tenute del Lazio, aveva «scoperto» le drammatiche condizioni di vita dei braccianti agricoli; sollecitato dalla sua compagna Sibilla Aleramo, che con altre signore della Sezione romana dell’Unione Femminile gestiva dei rudimentali Corsi di alfabetizzazione, creati da Anna Fraentzel Celli per facilitare la campagna igienico sanitaria condotta dal marito, decise di prendere parte a quella lodevole ma poco risolutiva iniziativa.
Nel 1907 per dare maggiore efficacia ed organicità all’azione educativa da poco avviata costituì un apposito Comitato per Le Scuole dei Contadini composto oltre che dai coniugi Celli e da Sibilla Aleramo, dal letterato Carlo Segrè, dal maestro Alessandro Marcucci e dall’artista Duilio Cambellotti.(4)
Da quel momento il riscatto morale e civile dei «guitti» della Campagna romana divenne lo scopo principale di Cena e la scuola, con il suo più alto significato educativo, sociale e culturale, assorbì la maggior parte delle sue energie, poiché, a suo avviso, essa rappresentava lo strumento indispensabile per offrire ad una categoria di diseredati la possibilità di migliorare le proprie condizioni di vita materiali e morali, di affermare i propri diritti, di elevarsi spiritualmente. E l’Arte fu anche uno dei principi base della didattica adottata nelle Scuole dell’Agro da Alessandro Marcucci, e condivisa da Duilio Cambellotti, convinti entrambi come Cena che qualunque forma ed espressione artistica fosse in grado di contribuire alla elevazione morale e spirituale di ogni individuo, anche se tra i meno fortunati e privilegiati dalla sorte.
Nel dicembre 1908, si verificò in Calabria e in Sicilia un devastante terremoto (N.d.R. il cosiddetto terremoto di Messina che uccise tra 50 e 100 mila persone); Cena accorse nei luoghi del disastro per conto della sua rivista, la Nuova Antologia, e il titolo del suo articolo potrebbe bastare per rendere l’idea di quanto aveva trovato nel suo viaggio «Lungo le rive della morte». Oltre a riferire sulla catastrofe avvenuta, a segnalare l’abnegazione e la generosità di innumerevoli volontari, di Comitati, della Croce Rossa, tutti accorsi per prestare aiuto, e a rilevare anche imperdonabili ritardi e disguidi da parte dei soccorsi «istituzionali», non trascurò di fare amare riflessioni sull’inerzia e sulla passività di una parte della popolazione: «[…] Conoscevo da vicino l’angoscia di chi accumula nel suo cuore le sofferenze individuali che lo circondano […] ora conosco l’angoscia di patria, un alternarsi di pietà e di sdegno per i propri fratelli, di slanci paralizzati dall’inerzia altrui, di rivolta impotente e di scoramento profondo. Qualche cosa negli ordinamenti che ci reggono, qualche cosa nella nostra educazione, nel nostro carattere stesso, è guasto da tempo. Non so fare accuse. Mi addoloro con me stesso, come tanti italiani che accorsero sui luoghi portando la pietà e l’aiuto delle regioni sorelle […]».(5) A quasi un anno di distanza Cena tornò nei «paesi devastati» della Calabria, facendo parte, insieme a Sibilla Aleramo, Gaetano Salvemini e Giuseppina Lemaire, di una Commissione inviata dalla Società fiorentina per l’Istruzione popolare nel mezzogiorno, a svolgere una inchiesta sulle condizioni delle scuole di tutta la provincia di Reggio, lasciando anche in questa occasione una sua preziosa testimonianza, oltre a quella della Commissione, sulle condizioni disastrose, o sull’assenza, della rete scolastica nel meridione d’Italia.(6)
L’esperienza calabrese fu l’ultima che condivise con la sua compagna Sibilla Aleramo, la quale dopo poco decise di porre fine alla loro unione affettiva e intellettuale; Cena pur soffrendo molto per la separazione dalla donna che aveva amato intensamente, si dedicò con rinnovato impegno al lavoro, e la lotta contro l’analfabetismo e la diffusione dell’istruzione soprattutto tra le popolazioni rurali divennero sempre più impegnative: nel 1911 al fine di ottenere aiuti e sovvenzioni per incrementare il servizio scolastico nell’Agro romano e pontino, avvalendosi del prestigio e della considerazione di cui godeva, organizzò una Mostra sulle Scuole dei Contadini nell’ambito delle manifestazioni dedicate al cinquantesimo anniversario della proclamazione dell’Unità d’Italia: la Mostra curata da Marcucci e da Cambellotti ebbe successo e richiamò l’attenzione del pubblico e del mondo politico sui problemi della Campagna romana e dei suoi abitanti e facilitò lo sviluppo e la diffusione delle scuole e degli asili rurali nel territorio laziale.(7)
Il 13 gennaio del 1915 un gravissimo sisma colpì l’Abruzzo provocando ingenti danni e numerosissimi morti: anche in questa occasione Cena accorse sui luoghi del disastro per conto del suo giornale e ancora una volta termine della peregrinazione nelle zone distrutte dal sisma, lasciò una preziosa testimonianza; avendo constatato ritardi e confusione negli interventi di soccorso da parte delle istituzioni governative non risparmiò le critiche, accompagnate da un suggerimento: «La guerra come le catastrofi vogliono una milizia […] E’ deplorevole che la mobilitazione dell’esercito non sia avvenuta vasta e rapida fin dal primo giorno […] L’educazione moderna può facilmente preparare la gioventù a questo compito patriottico e sociale. I ragazzi esploratori, le società sportive preparino i loro membri a questo servizio sociale[…].(8)
In quello stesso tragico periodo l’Italia era entrata in guerra, e Cena, nonostante i problemi privati, i lutti, la cattiva salute, le difficoltà dovute al conflitto, aveva assunto la carica di vicepresidente del Comitato romano per l’Organizzazione Civile – Sezione Agro Romano, e coadiuvato da Marcucci, dai maestri, dai parroci e dai cappellani rurali, si attivò per garantire l’assistenza alle famiglie dei richiamati, organizzò gli asili per i bambini, i corsi scolastici per i soldati ricoverati negli ospedali, l’accoglienza per i reduci e quanto altro potesse essere di aiuto alle categorie più bisognose; si adoperò anche per assistere i profughi Serbi scampati alla morte, alle malattie, alle privazioni, giunti a Roma senza nulla dopo avere attraversato a piedi le montagne d’Albania.
Inoltre, con la collaborazione di Marcucci in qualità di redattore e di Cambellotti come illustratore, fondò e diresse un giornale, Il Piccolissimo, uno strumento agile di cultura e di informazione rivolto alle popolazioni rurali e ai militari, cercando tra amici e conoscenti altri partecipanti all’iniziativa: «Caro amico – scriveva ad Angiolo Silvio Novaro – ti ho mandato i numeri finora usciti del Piccolissimo, mia fatica particolare. Sinora ho sempre pubblicato versi vecchi, poeti del Risorgimento. Amerei dare qualchecosa di moderno. Vuoi collaborare a quest’opera di propaganda? Ne stampiamo trentamila copie, che vanno in villaggi dove mai nessun giornale era penetrato, specialmente dell’Italia meridionale. Me diamo mille copie ai soldati negli ospedali di Roma. Le spese, stampa e carta, sono sostenute dall’Unione Insegnanti, Sezione di Roma […] Ti prego dunque di darci qualcosa ogni tanto. Se fosse per ogni numero… tanto meglio. Abbiamo il disegnatore (gratuito) unico, Duilio Cambellotti. Avremmo anche il poeta […]»(9). Al suo invito aderirono tra gli altri Pietro Fedele, Giuseppe Zucca, Ferruccio Martini, Orso Maria Corbino, Angelica De Vito Tommasi, Francesco Acerbi; il giornale, dopo la morte di Cena proseguì per qualche tempo sotto la direzione di Marcucci, il quale però, a causa delle consuete difficoltà economiche fu costretto a chiuderlo nel 1919 con un numero speciale in cui erano raccolte le migliori illustrazioni di Cambellotti.(10)
Nel 1916 Cena rimase per un breve periodo in Piemonte in attesa di ottenere il permesso di seguire le operazioni militari in zona di guerra come corrispondente della Nuova Antologia:“[…] Forse otterrò di vivere una settimana proprio accanto ai soldati nelle prime linee. Altrimenti non saprò fino in fondo che cos’è la guerra […».(11) Dopo avere trascorso un breve periodo al fronte: «Non avevo idea della guerra. – ha scritto – Tutto quello che si legge sui giornali non chiarisce le idee, le annebbia. Ogni descrizione è impari alla realtà. Centinaia di migliaia di uomini sono intenti a mantenere strade, armi, cibo ad altre migliaia di uomini che stanno in una linea sterminata a contatto col nemico. Al centro di questo movimento quasi non si sente la guerra: il pericolo è raro, s’intensifica a grado verso la periferia ove la linea d’incrocio è apportatrice di ferite, prigione o morte. E’ un mondo sorprendente, una vita inattesa, che palpita di passione e di dolore, vita di dovere tragico fortemente accettato e talvolta anche eroicamente desiderato, dove l’estraneo – com’io ero – sente un rimorso quasi d’intruso. Soltanto il pericolo condiviso – e non si avvicina la vera guerra senza pericolo – attenua alquanto questo rimorso».(12)
Nel dicembre del 1917, a pochi mesi dalla morte di Leopoldo Franchetti, Cena fu colpito da una acuta forma di polmonite, e il suo fragile fisico provato dalle eccessive fatiche non resse alla malattia: «l’apostolo della scuola», come venne definito, si spense nella sua casa romana ai Parioli, dove si era trasferito felicemente nel 1913: «Sai che ho cambiato casa? – aveva comunicato allora all’amico Giacomo Boni – Sto a Vicolo San Filippo 11, ai Parioli, possiedo una terrazza che ha un panorama meraviglioso tutt’intorno: sicché non ho troppo da invidiare al tuo soggiorno Palatino […]» (13). Comunicò il nuovo indirizzo anche ad Eugenia Balegno: «Ho cambiato casa. E vivo in una specie di torre, avendo sott’occhi la campagna e i monti e un bellissimo bosco di pini. Luogo incantevole. Una terrazza con i fiori, un gatto e una tartaruga. I colombi del vicino mi hanno costretto a circondare i miei poveri vasi con una ramata di fil di ferro! Sono insomma in villeggiatura[…]»(14). Purtroppo la villeggiatura non doveva durare a lungo. Durante la grave malattia polmonare che lo aveva colpito, si erano avvicendati al suo capezzale pochi amici, tra cui Alessandro Marcucci che ha ricordato: «Non più di sette giorni egli visse ansimando in una lenta agonia […] con due pensieri fissi nella mente come chiodi; l’uno: Che sarà della guerra e dei contadini tornati dalle trincee […]; l’altro era per una persona lontana, a lui cara, che gli era stata compagna affettuosa e devota come a un maestro e ora non era più al suo fianco […]».(15)
La «persona lontana» cui pensava Cena nella sua dolorosa solitudine era naturalmente Sibilla Aleramo, che una ristretta cerchia di amici non aveva volutamente avvertita della gravità del suo male, forse per proteggerlo dalle emozioni o forse per ostilità nei confronti della scrittrice, colpevole ai loro occhi di averlo abbandonato tanto tempo prima; solo Anna Celli si preoccupò di fare comunicare l’avvenuta fine del poeta alla Aleramo, che nel suo diario ha scritto: «So che aveva un mio grande ritratto davanti al letto e lo fissò durante la malattia e l’agonia. Ma non seppe, non credette mai allo strazio che io provai, lungo, feroce, per aver dovuto staccarmi da lui. Che ancora mi fa dolere il cuore quando lo rievoco, a distanza di trent’anni […]».(16) Anche l’amico Umberto Zanotti Bianco ha lasciato una toccante testimonianza dell’ultima visita fattagli con Giuseppina Lemaire, quando era malato: «Avvisato dalla Lemaire, assieme andammo a trovarlo. Era solo. Fredda era la sua stanza, e per riscaldarsi le mani gelide, aveva passato le sue braccia in un paio di mutande di lana. La Lemaire amorevolmente lo coprì con il suo mantello. Aveva lo sguardo triste, rassegnato e pareva ripeterci: ‘Accettando la morte oggi, domani, quando verrà, mi sento umano’. Questo è l’ultimo patetico ricordo che di lui mi è rimasto».(17)
Nella Scuola costruita in suo onore in Agro Pontino, a Casale delle Palme sulla via Appia, era stata affissa una lapide per ricordarne l’apostolato sociale e culturale:
«… PERCHÉ IL CONTADINO DEL LAZIO
SALISSE DALLA MISERIA DELLA SUA VITA ALLA
DIGNITÀ DI CITTADINO E DI LIBERO COLTIVATORE
REDIMENDO CON SÉ LA SUA BELLA E FERACE
TERRA ASSERVITA NEL LATIFONDO FLAGELLATO
DALLA MALARIA – GIOVANNI CENA –
PERCORSE QUESTE CAMPAGNE DIFFONDENDO
LA LUCE DELL’ALFABETO. …”
Giovanna Alatri
Altre puntate seguenti del racconto Quando ai Parioli c’erano i campi …:
Grazie e arrivederci al prossimo racconto Roma2pass.
NOTE:
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