Cara/o Socia/o AMUSE,
come preannunciato è stato pubblicato il primo dei Racconti del Flâneur Roma2pass 2023. Si intitola “Il parco di Villa Leopardi” ed è un breve racconto che parla della villa sulla via Nomentana, nell’area chiamata “quartiere africano” per via dei nomi delle strade. Continue reading
R2p news: “I racconti del Barbiere”
Questa settimana, nella rubrica i Racconti del Flâneur, Roma2Pass presenta un ricordo di Massimo Santucci che parla di un flâneur del tutto particolare: il barbiere di piazza Pitagora. Un personaggio, ormai scomparso, ma che, tra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, era conosciutissimo in zona e che, a sua volta, conosceva tutti e tutto del circondario. Continue reading
“I racconti del barbiere” di Massimo Santucci
A mio padre Carlo Santucci, una parte di me.
Provo una insolita sensazione di pace quando osservo gli attici, le terrazze, i balconi di viale Bruno Buozzi o via Paisiello. Quei piani alti, dove il rumore del traffico è attutito, così soleggiati fin dai mesi primaverili, mi riportano indietro negli anni, a una piazza Pitagora priva di semafori e marciapiedi spartitraffico, mentre stringevo forte mani grandi e sicure. (In figura, una foto degli anni Trenta di piazza Pitagora attraversata da via Bertoloni. A destra, la foresteria del Collegio di S. Elisabetta, demolito negli anni Settanta) Continue reading
Racconto da fare
mail del 14-11-2024
Salve!
Mi sono iscritta alla vostra associazione a luglio scorso con molto entusiasmo. Purtroppo non riesco a partecipare alle vostre riunioni perché in quell’orario sono impegnata in un’attività di ballo di gruppo che mi serve molto per il fisico e per lo spirito, ma vi seguo sulla pagina web e ho scoperto i racconti del Flaneur e mi sono piaciuti, mi è piaciuta l’idea innanzitutto. Per questo ho pensato che potevo anch’io mandarvi un piccolo scritto, visto che mi piace scrivere e mi piace tanto il mio quartiere. Vi invio quello che ho scritto perché lo possiate valutare. Grazie e spero di avere altre occasioni di incontro.
Angela Di Vanna
Racconto
Sono nata a via Alessandria 154 settanta anni fa. Lo dico con un po’ di incredulità, mi sembra impossibile che sia passato tanto tempo!
Quando dico che sono nata là vuol dire che sono nata a casa mia, come allora si usava. Mia madre si era diplomata pochi anni prima in ostetricia e si fece assistere da una sua collega di studi. Nacqui dopo ore di travaglio, con un grosso tumore da parto in testa, non dovevo essere molto carina.
Il mio palazzo era uno di quelli che si chiamano “di ringhiera”, costruito dai Piemontesi dopo la presa di Porta Pia, come tutto quel pezzo del nostro quartiere. “Di ringhiera” vuol dire che le porte e le finestre delle case affacciano quasi tutte su un ballatoio e così il cortile che ne occupa lo spazio centrale diventa il fulcro della vita di una piccola comunità, una specie di paesetto dove tutti sanno tutto della vita degli altri abitanti. Era abitato da famiglie non ricche e da alcune che lo erano un po’ e che facevano pesare la loro superiorità sugli altri.
La mia casa era tra le più piccole del palazzo e così quando crebbi e quando nacque mia sorella e altre due bambine nostre coetanee fu semplice diventare un gruppetto che cresceva insieme e che usava gli spazi comuni, i ballatoi, i pianerottoli, le scale, come uno spazio che permetteva di inventare giochi e passatempi semplici, come fare su e giù le scale alternando salti più o meno grandi. Ovviamente questo rese le scale anche teatro di grandi capitomboli, ma per fortuna nessuna si fece male più di tanto.
C’erano anche attività legate agli eventi dell’anno, la più bella era quella che ci permetteva a Carnevale di decorare il cotile con le stelle filanti. Avevamo a disposizione due piani e così iniziavamo prendendo una un capo e una l’altro della stella filante e correvamo un di qua e una di là fino a dove l’avremmo legata alla ringhiera. Alla fine del lavoro tutto lo spazio del cortile era coperto e quando soffiava anche un po’ di vento le stelle filanti davano uno spettacolo proprio bello che ci rendeva orgogliose del nostro lavoro.
Ovviamente se per caso pioveva il lavoro veniva distrutto e ci toccava rifarlo, ma forse non ci dispiaceva, perché in realtà farlo era la cosa che ci dava più gusto.
I giochi più belli li facevamo dentro le case, spostandoci tutte insieme a seconda delle esigenze delle nostre madri. Anche se gli spazi erano angusti, la nostra fantasia li faceva diventare enormi: a volte eravamo signore che si lamentavano dei loro mariti, che fingevano di portare al parco i figli e di accudirli, a volte eravamo principesse e ci travestivamo con strani abiti vecchi che trovavamo nelle varie case e
mettevamo scarpe vecchie con il tacco di parecchi numeri troppo grandi, cosa che non toglieva nulla al loro fascino.
Era molto bello crescere insieme, avere sempre qualcuno con cui giocare nei momenti liberi dai doveri.
Il quartiere aveva anche lui il suo ruolo: Villa Paganini era lo spazio di gioco non sempre disponibile, dove andavamo spesso accompagnate dalle madri un po’ a turno e dove trovavamo ogni volta altri bambini del quartiere.
Prima di arrivare alla villa passavamo di fianco alla nostra scuola, la gloriosa “XX Settembre 1870” dedicata ovviamente alla presa di Porta Pia, evento storico che domina tutta la zona.
Anche le nostre madri erano agevolate da quella particolare struttura del palazzo e dal fatto che crescendo insieme si potevano permettere di gestirci insieme.
Non avevamo bisogno di baby sitter, un po’ i nonni con cui vivevamo, un po’ l’aiuto reciproco facevano sì che noi non fossimo mai sole.
Alla fine delle elementari però grazie al fatto che entrambi i miei genitori avevano trovato un lavoro fisso e dal momento che lo spazio era veramente poco ci trasferimmo a via Nomentana in una casa molto grande e in un palazzo dove non conoscevamo nessuno e dove non si incontravano spesso gli altri abitanti del palazzo.
Per me e per mia sorella fu un lutto enorme, anche se di lì a poco lentamente il nostro vecchio palazzo si svuotò, arrivarono gli studenti fuori sede e altri abitanti che non stavano molto tempo a casa e il cortile che era pieno di voci quando noi eravamo piccole diventò molto silenzioso.
Ogni tanto torno a vederlo quel cortile, presa dalla nostalgia di un tempo così lontano e così diverso dal nostro presente che a raccontarlo sembra un po’ una favola. A volte mi sono divertita a mostrarlo ad altre persone più giovani e a cogliere nella loro espressione un po’ di incredulità.
Ma noi quattro che quella storia l’abbiamo vissuta, tante volte ci siamo dette che quell’infanzia insieme è stata una bella esperienza e che il nostro sodalizio ha contribuito a proteggerci da certi climi familiari normali per quegli anni di immediato dopo guerra caratterizzati dalla presenza di papà traumatizzati dalla guerra di cui erano reduci, dalle difficoltà economiche ,dalla convivenza di tre generazioni in spazi ristretti.
Il villino rosso di Villa Torlonia
Lo vedevo tutti i giorni, andando a lavorare presso l’Ospedale odontoiatrico G. Eastman ma non avevo mai immaginato che, una volta andata in pensione, avrei fatto una guida volontaria proprio lì, durante le giornate di Open House in cui ho conosciuto le persone che ci lavorano e scoperto la sua storia.
Per arrivarci da via Nomentana percorriamo via Spallanzani fino all’incrocio con via Siracusa dove, davanti a noi, vediamo un edificio rosso.
L’edificio è stato eretto, tra il 1920 ed il 1922 su progetto di Paolo Gianoli, in stile eclettico e barocchetto da Giovanni Torlonia junior come residenza per il suo amministratore. In architettura, l’eclettismo definisce lo stile nato dalla mescolanza dei migliori stilemi ripresi da diversi movimenti architettonici, storici e anche esotici mentre lo stile architettonico “barocchetto” consiste nella rielaborazione di elementi dell’architettura minore romana tra il ‘500 ed il ‘700.
Dalla parte della strada, si apre un portone centrale sotto una grande tettoia, mentre dal lato giardino un altro portone si apre su di una rampa che supera un ponte e scende costeggiato da un filare di cipressi. La zona sotto al ponte anticamente serviva per l’accesso delle carrozze. Attualmente vi è una fontana e un mascherone, appoggiato alla parete e sormontato dallo stemma dei Torlonia, da dove sgorgava l’acqua.
All’ingresso del ponte fanno buona guardia due sfingi in travertino provenienti da una delle fontane del Valadier, anticamente poste di fronte al Palazzo centrale o Casino Nobile, demolite durante le trasformazioni di Alessandro Torlonia tra il 1802 e il 1806.
Le decorazioni degli interni hanno come tema prevalente i simboli araldici dei Torlonia. Al primo piano, il pavimento del salottino ottagonale è ornato da un mosaico raffigurante la Fenice che risorge trionfante dalle ceneri. Le pareti sono dipinte a tempera con dei finti pilastri sorreggenti un cornicione sormontato da una cupola a padiglione, pilastri decorati con le allegorie delle quattro stagioni ed i segni zodiacali; la parete è infine ricoperta da una tappezzeria a fasce con disegni di grappoli d’uva. In alto è incisa la data di costruzione dell’edificio: MCMXX.
Attualmente, dopo il restauro del 2000, l’edificio è stato concesso in utilizzo all’Accademia delle scienze o dei Quaranta, che per una strana combinazione o per uno scherzo del destino, ha per simbolo proprio la Fenice che risorge dalle ceneri. Nel Villino Rosso sono situati la Presidenza e l’archivio storico dell’Accademia mentre le Scuderie Vecchie sono la sede della biblioteca e della sala conferenze.
Entrambi i fabbricati, appartenenti al demanio comunale di Roma e concessi in uso all’Accademia, sono stati recuperati da una situazione di degrado e restaurati a spese dell’Accademia, ripristinando per quanto possibile le decorazioni artistiche esistenti (mosaici pavimentali, fregi dipinti, stucchi, ecc.), nel rispetto dei vincoli architettonici storico-artistici e ambientali.
L’accademia deve le sue origini ad Antonio Maria Lorgna, matematico ed ingegnere idraulico, che fondò a Verona nel 1782 la “Società Italiana” radunando i quaranta più illustri scienziati di ogni parte d’Italia tra cui Alessandro Volta e Lazzaro Spallanzani. Dal numero dei suoi Soci, la Società venne da subito chiamata «la Società dei Quaranta».
In quell’epoca era esiguo il numero di coloro che si accostavano alla scienza e nessuna delle Accademie esistenti era orientata esclusivamente alla scienza; inoltre l’accesso agli studi, soprattutto scientifici, era oltremodo elitario.
Nello stesso anno 1782, Lorgna pubblicò il primo numero delle Memorie accademiche nella cui prefazione ribadiva che «lo svantaggio dell’Italia è l’avere ella le sue forze disunite» e che, per unirle, bisognava incominciare ad «associare le cognizioni e l’opera di tanti illustri Italiani separati». In queste parole sta già il programma della futura Società e la sua portata politica e patriottica: «tutti gli illustri Italiani», non più un’Accademia piemontese, lombarda, veneta o delle due Sicilie, ma un’Accademia italiana.
L’intenzione di Lorgna era dunque quella di riunire e valorizzare la produzione scientifica oltre i confini dei singoli Stati con lo scopo di formare una massa critica di scienziati che potesse competere con il pensiero scientifico e culturale delle grandi potenze europee dell’epoca.
Sin dai primi anni è evidente la vocazione divulgativa dell’Accademia: nei primissimi anni viene pubblicato un Almanacco astronomico, nel quale si segnalavano, anno dopo anno, gli eventi che si sarebbero verificati. In seguito Antonio Stoppani pubblicò, nel 1876, “Il Bel Paese” sulle bellezze geomorfologiche dell’Italia.
La Società dei XL si affermò rapidamente ed in pochi anni venne considerata come la sola rappresentante della Scienza italiana: Federico il Grande, re di Prussia, le Accademie straniere, da quelle francesi alle russe, e più tardi quelle americane, strinsero rapporti con la «Società Italiana».
Per statuto la sede della Società venne fissata presso il suo Presidente, ed essendo Lorgna veronese, la prima sede dell’Accademia fu Verona. Dopo la morte di Lorgna, La Società mutò il suo nome in quello di «Società Italiana delle Scienze detta dei XL». Si trasferì prima a Milano, poi a Modena e infine a Roma, nel 1875, dopo la proclamazione di Roma capitale d’Italia. Nel 1949 assume il nome di Accademia Nazionale dei XL e nel 1979 diviene ‘Accademia Nazionale delle Scienze, detta dei XL’.
Tra i soci dell’Accademia figurano i più grandi cultori della Scienza italiana: Volta, Stoppani, Spallanzani, Golgi, Pacinotti, Fermi, Avogadro, Natta, Marconi, Amaldi, Marini Bettolo, per citarne alcuni. A sette dei suoi Soci nazionali è stato assegnato il Premio Nobel: Marconi, Golgi, Fermi, Natta, Bovet, Rubbia e Levi-Montalcini.
Accanto ai soci italiani, sin dalla fondazione, Lorgna aveva previsto una classe di dodici soci stranieri, attualmente portata a 25. Durante due secoli, si sono succeduti ben 174 scienziati di tutto il mondo che rappresentano i nomi più prestigiosi della scienza mondiale da Condorcet a Pasteur, da Franklin ad Einstein, da Humboldt a Monod, da Liebig a Salam, da Mendeleev a Röntgen, da Bohr a Perutz, da Chain a Odhiambo.
Lo scopo dell’Accademia è quello di stabilire un contatto permanente fra gli scienziati, gli insegnanti e chi compila i libri di testo, per ovviare all’inevitabile ritardo che esiste nella trasposizione didattica affinché i temi attuali della ricerca scientifica siano presenti nei libri di testo. L’Accademia assegna premi scientifici, promuove convegni, pubblica periodici, presta consulenze per apparati dello Stato, intrattiene rapporti con altre istituzioni italiane e straniere.
L’edificio delle Vecchie Scuderie, che serviva come alloggio per i cocchieri e i giardinieri, oltre che ricovero per i cavalli, fu realizzato verso l’inizio del XIX secolo (1805/1806) da Giuseppe Valadier. Il Valadier ideò un edificio con una loggia con sovrastanti statue e le facciate con bugnato. Nel secondo quarto del secolo XIX il palazzo fu ampliato da Giovan Battista Caretti in stile neogotico. Dopo il restauro, i vari locali delle scuderie vecchie sono state adibite a Biblioteca dell’Accademia delle Scienze, a sede del Servizio Giardini, a guardianeria per la sorveglianza delle vicine catacombe ebraiche, a magazzino e locali per attività culturali.
La biblioteca dell’Accademia ha una storia complessa come quella della “Società Italiana delle Scienze detta dei XL”. La biblioteca era inizialmente costituita dal patrimonio bibliografico e archivistico raccolto dal fondatore A.M. Lorgna durante gli anni della sua presidenza. In seguito, le donazioni dei Soci, i manoscritti e gli scambi epistolari, i lasciti di fondi personali ed i rapporti di scambio di volumi e fascicoli con le altre Accademie nazionali e straniere, hanno arricchito negli anni il patrimonio librario; nonostante abbia subito anche alcune dispersioni, esso conta circa ventimila volumi.
Data la natura itinerante della Società, sin dalla sua nascita, anche la biblioteca non ebbe una sede stabile ma fu destinata a spostarsi seguendo le vicende ed i percorsi geografici della Società.
Nella sala di consultazione presso Villa Torlonia, sede della biblioteca dal 2007, sono esposte, oltre alla serie completa delle Memorie dell’Accademia, le due principali raccolte di monografie del XVIII – XX secolo di volumi di storia della scienza e di opere di soci o riguardanti la vita e il lavoro di questi. Tali raccolte sono state acquisite a vario titolo dall’Accademia, e in particolare sono il frutto degli acquisti in antiquariato che l’Accademia effettua con sistematicità da diversi anni.
Sono inoltre collocate alcune tra le principali e più preziose collezioni di periodici accademici del XIX secolo: gli atti dell’Accademia delle Scienze e dell’Osservatorio Astronomico di San Pietroburgo, dello Smithsonian Institute di Washington, della Royal Society di Londra, della Royal Irish Academy, dell’Akademie der Wissenschaften di Berlino e le “Greenwich Observations” del Royal Observatory di Greenwich, per citare alcune tra le istituzioni straniere più prestigiose.
Vi sono poi le raccolte complete degli atti delle maggiori Accademie scientifiche italiane: Torino, Bologna, Napoli, Accademia dei Lincei, Istituto Lombardo di Scienze Lettere e Arti, Circolo Matematico di Palermo. Nella sala al piano superiore, sono conservate raccolte miscellanee di volumi del Novecento, tra cui si ricordano i fondi Caglioti, Milazzo e Tumedei.
Oggi è passato tanto tempo, io sono in pensione ma io continuo a passare davanti al Villino, che ormai è un po’ un vecchio amico con cui ho condiviso un pezzetto della mia vita.
Elena Cipriani
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- MAPPA della Zona Nomentano 1 (la fascia a destra di via Nomentana, da Porta Pia a viale XXI Aprile)
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“Quando per curarsi si andava al mattatoio” di Bruno Caracciolo
RACCONTO DEL FLANEUR DA PUBBLICARE il 1 NOVEMBRE 2024
I medici, si sa, sono sempre stati creativi nell’ideare terapie sempre nuove da somministrare ai loro pazienti. Purtroppo, prima che si affermasse la medicina basata sulle prove di efficacia, un’infinità di cure inutili, quando non dannose, sono state praticate nel corso del tempo. A noi nati negli anni ‘50 è stata risparmiata da bambini la somministrazione quotidiana del disgustoso olio di fegato di merluzzo che aveva afflitto le generazioni precedenti. Non ci sono state risparmiate, però, cure “ricostituenti” che hanno “ricostituito” soprattutto i bilanci delle aziende farmaceutiche che le producevano.
Con le conoscenze attuali sembra impossibile che non più di un secolo fa venissero somministrati sciroppi a base di oppio ai lattanti per lenire i dolori della dentizione o che si facesse largo uso di sostanze radioattive per le patologie più disparate. Chissà se i titolari di un’erboristeria attualmente in esercizio a via di Torre Argentina sanno che negli stessi locali cento anni fa era possibile comprare le sanguisughe che venivano applicate per “cavare il sangue in eccesso”.
I medici erano tanto ansiosi di trovare nuove cure che non esitarono, ad esempio, a proporre terapie coi “raggi N”. Nel 1903, dei fisici francesi, sull’onda dell’entusiasmo derivante dalla recente scoperta dei raggi X, ritennero di averli individuati. L’anno successivo il fisico Wood dimostrò che si era trattato di un abbaglio: i raggi N non esistevano, ma nel frattempo alcuni medici ne avevano vantato le proprietà terapeutiche in numerosi articoli pubblicati su riviste scientifiche.
Nel 1824 papa Leone XII decise, per motivi di igiene, di porre fine alla macellazione degli animali all’interno della città presso i singoli macellai e di far realizzare un moderno stabilimento situato appena al di fuori di Porta del Popolo, in un’area tra le Mura Aureliane e il Tevere, approssimativamente corrispondente all’area tra le attuali via Luisa di Savoia e l’asse via della Penna e via dell’Oca.
Il mattatoio di piazza del Popolo venne inaugurato l’anno successivo; l’area si prestava bene perché era in prossimità del mercato del bestiame, era vicina al Tevere (dove si potevano gettare i resti della macellazione) ed era fornita di acqua dall’acquedotto Vergine, che passa lì vicino e, all’epoca, alimentava tutte le fontane della zona. Il Belli, reazionario e contrario a tutte le innovazioni, non gradì e scrisse un sonetto per lamentarsi di non poter più godere, a causa della realizzazione “dell’ammazzatore”, della vista delle mandrie che entravano a Roma e, soprattutto, dello spettacolo comico del fuggi fuggi generale quando una bestia imbizzarrita scappava per le vie del Tridente di piazza del Popolo.
Le cure
A partire dal 1829 all’interno del mattatoio si cominciarono a praticare due nuove terapie portate da Mentone a Roma dal dott. Giacinto Grana e che oggi troveremmo raccapriccianti: i bagni zootermici e la bevanda di sangue.
La zootermia era una pratica terapeutica destinata a diverse patologie e consisteva nell’immergere la parte malata nelle cavità viscerali dei bovini appena macellati, o più di frequente, nel loro contenuto travasato in delle vasche. Nei primi tempi la terapia veniva praticata direttamente all’interno del mattatoio, ma per ovviare agli inconvenienti dovuti alla mancanza di riservatezza e alla convivenza con un ambiente sgradevole e pericoloso, nel 1860 venne realizzato dall’architetto Gioacchino Ersoch un edificio apposito che prese il nome di “fabbrica ad uso di bagni calorico-animali”.
In ciascuno, dei primi due piani vi era un “bagno” per gli uomini e uno per le donne; al primo piano si prestavano cure gratuite, mentre al secondo i trattamenti erano a pagamento, 50 centesimi per mastello di contenuto gastrointestinale. Il terzo piano ospitava l’abitazione del custode. I locali a pagamento erano arredati con certo lusso e dotati di tutte le comodità necessarie.
Si usavano grandi vasche di zinco o di latta per l’immersione totale, vasche per semicupio e vaschette più piccole per il trattamento ai singoli arti. Dopo l’immersione, la vasca era chiusa con un coperchio di zinco e avvolta da una coperta di lana per mantenere il calore.
Per accedere ai bagni era necessaria una prescrizione medica. Le indicazioni terapeutiche erano le più varie: problemi reumatici, cutanei come la scrofola (linfadenite tubercolare), ma anche dolori di capo, amenorrea, malattie veneree e gotta. Per la cura si consigliava l’ora di pranzo e lo stomaco vuoto, di preferenza d’estate.
La seduta durava mezz’ora o tre quarti e, al termine, gli inservienti pulivano, prima con una spugna e poi con un asciugamano, le parti del corpo del paziente che erano state immerse, escludendo un lavaggio con acqua calda, perché questo avrebbe ostacolato “la continuazione dopo il bagno dell’assorbimento delle materie rimaste sulla cute, tanto più che il leggiero puzzo superstite è tollerabile ed appena avvertito dall’infermo”.
A partire dal 1876, presso il mattatoio venne introdotta un’altra terapia destinata ai soggetti anemici per varie cause o indeboliti da malattie come la tubercolosi o le febbri malariche (all’epoca diffuse nelle campagne fino alle porte della città). La cura, detta “bevanda di sangue” o “bibite di sangue”, consisteva nel far bere al paziente sangue proveniente dalle bestie appena macellate (ritenute idonee da un veterinario).
Il sangue era somministrato in bicchieri colorati per mascherarne il colore. La dose iniziale, per vincere la ripugnanza, era di 100 grammi, per poi arrivare alla dose piena di 500 grammi. Per facilitare l’assunzione, in alcuni casi al sangue venivano mescolati del latte o dei tuorli d’uovo. La cura durava, in genere, 60 giorni con risultati positivi in circa la metà dei casi trattati.
Nel 1888 venne inaugurato il nuovo mattatoio a Testaccio progettato dall’architetto Gioacchino Ersoch e, insieme alla macellazione degli animali, vennero trasferite, in locali appositamente destinati, anche le attività terapeutiche dei bagni zoo-termici e di bevande di sangue.
Nella fotografia, ripresa nel 1890 dal pallone di Louis Godard, è possibile vedere in primo piano il mattatoio fuori Porta del Popolo e, inoltre, si riconoscono: i muraglioni del Tevere e il ponte Regina Margherita in costruzione, la Passerella di Ripetta, che sarà sostituita dal Ponte Cavour, e la cupola dell’Augusteo.
Bruno Caracciolo
Fonte: Cesare D’Onofrio, “Il Tevere e Roma”, Bozzi editore, tramite www.romasparita.eu
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- “Damnatio memoriae, decoro e vandalismo nel Municipio II” di Andrea Ventura
- “Davanti alla lapide per Saverio Tunetti” di Giorgio Panizzi
- “Fra cannoni e osterie 3”
- “Il salto del fosso” di Francesco Pacifico
- “Il Santo dei tre misteri” di Armando Bussi 2a versione
- “La deportazione degli ebrei romani residenti nel Municipio II” di Bruno Caracciolo
- “La Natura nella educazione – La Scuola di Arte educatrice” di Giovanna Alatri
- “Le meridiane di Villa Borghese” di Bruno Caracciolo
- “Passeggiate romane: una strada, una casa, una scritta”
- “Qualche parola su piazza Euclide” di Andrea Ventura e Pietro Rossi Marcelli
- “Statue abusive” di Bruno Caracciolo
- “Il Santo di Porta Pia” di Armando Bussi v.3
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- MAPPA della Zona Flaminio 1 (da Porta del Popolo a Belle Arti, tra il Tevere e Villa Strohl Fern)
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Un itinerario tra sogno, ricordo e realtà
Il nostro socio e amico Massimo Santucci ci ha inviato un racconto che pubblichiamo con piacere. Il titolo è “Villa Borghese: un itinerario tra sogno, ricordo e realtà“ e in questo breve scritto, Massimo si apre al lettore e racconta come, ancora oggi, la vista delle ville e palazzine sul breve percorso da casa sua al Parco dei Daini e degli alberi del parco lo riportino alla sua infanzia, ahimè lontana.
Pur non essendo questo un vero “racconto del Flâneur”, in quanto i ricordi dell’autore e le emozioni che ci confessa sono lontane dall’atteggiamento di un classico flâneur, ci è piaciuto e siamo lieti di pubblicarlo.
Leggetelo e raccontateci anche voi, se volete, quanto passare per le strade, le piazze, gli angoli del quartiere in cui siete nati vi faccia tornare a ricordi, emozioni e personaggi del vostro passato. Buona lettura!
“Villa Borghese: un itinerario tra sogno, ricordo e realtà” di Massimo Santucci
RACCONTO DEL FLANEUR ROMA2PASS PUBBLICATO IL 23 SETTEMBRE 2024.
Quelle case signorili costruite negli anni venti, i villini eleganti di quell’area del quartiere Pinciano, sospesa tra via Paisiello e via Mercadante, chiamata quartiere Sebastiani (dal nome del proprietario dei terreni intorno all’attuale sede dell’Ambasciata di Grecia, mi riportano indietro nel tempo. Ma non è uno spazio temporale, piuttosto è uno stato dell’anima: lo avverto quando cammino frettoloso e disattento.
Appena getto lo sguardo, anche solo per un attimo, su ville e palazzi sento in modo ancor più indefinibile quel sentimento di malinconia, il confine incerto tra la tristezza per un passato fuggito via e il rifiuto per la realtà di oggi, caotica e spesso invivibile. Così la memoria s’incammina per sentieri intimi, certo lontani, ma nitidi per affetti indelebili.
Nonna Settimia mi parlava di quando il marito, Attilio Pizzi, la portò nella nuova casa di via Bellini appena costruita dall’architetto Sleiter; lei, nata in un paesino umbro, spaesata ma affascinata dalle case di Marcello Piacentini: nicchie, statue, fregi, come la palazzina di via Martini o quella di piazza Verdi 9 che ancora ha sul muro la S del vecchio rifugio antiaereo.
Linee eleganti che si possono ammirare soprattutto quando lo sguardo va verso gli attici, sperando di non imbattersi in qualche sopraelevazione abusiva. Intuizioni moderne, architettura sobria, cancelli di ferro battuto su giardini ben curati.
Mia madre seguiva sempre lo stesso itinerario per andare ai giardini: scendevamo per via Porpora, passando di fronte al villino Astaldi di Marco Ridolfi, per poi entrare a Parco dei Daini.
Non c’era ancora l’inferriata e spesso correvo avanti per salire lungo il muro vicino all’ingresso laterale del Giardino Zoologico (l’attuale Bioparco), sempre chiuso, di fronte all’hotel Parco dei Principi. Da lì, lungo il viale, correvo verso i due Sarcofaghi e poi altre salite sui blocchi marmorei. “Villa” era nostra, a piedi, di corsa, col pallone, in bicicletta, con mia madre o da solo, i pomeriggi non avevano ore, la felicità compagna di giochi.
Per i viali alberati intorno alla Galleria Borghese, allora perennemente chiusa e ora gremita di turisti, le pedalate erano interminabili, via via più lunghe col passare degli anni e con i permessi materni, fino a Piazza di Siena. Giravo intorno alle fontane, quella dei Cavalli Marini o quella del Sileno, nel laghetto di Parco dei Daini, vicino al serbatoio dell’Acqua Marcia che allora era chiamato il “Cisternone”, dove si entrava per giocare a nascondino … ora i bambini non possono nemmeno avvicinarsi perché tutto è transennato e pericolante, erbacce ovunque.
E poi, ancora più lontano, a scoprire Giardino del Lago, con le gare di barche di carta lungo i canali d’irrigazione che andavano verso il grande specchio d’acqua dominato dal Tempio di Esculapio dove ancora si affittano le barche … quelle vere.
Negli spazi più larghi del Parco le partite a pallone, due contro due, ma anche di più: “… noi col portiere volante siamo uno di meno!” E la voce di mia madre ”andiamo a casa … devi fare i compiti … sei tutto sudato … domani ti ammali!“. Ti vedo sai, signorile e distaccata, ma ansiosa se non mi vedevi arrivare vicino a te, sulla panchina. “Dove eri?” “Eccomi, sono stato a bere alla fontanella”: quelle due dietro al cancello dei due Sarcofaghi hanno l’acqua più fresca.”
Nel grande campo di Parco dei Daini giocavano i grandi: molte le maglie della Roma. Ma qui giocava anche la Lazio, dal 1906 al 1913, proprio dove fino alla fine dell’800 correvano daini e gazzelle.
Scendendo oltre le due fontane, dopo la Meridiana e due piccoli obelischi, si correva lasciando a destra la “valle dei platani”, meglio conosciuta come valle dei cani. Luogo d’incontro per amicizie tra cinofili, nomi che risuonano ancora oggi : ”Leopolda, Gastone, Brando, Diogene …”, setter o pastori tedeschi o … amici discreti, autentici, fedeli?
Sotto agli alberi austeri con le foglie increspate “dar ponentino”, ormai flebile … , non ti sembra di vedere una dama e il suo cavaliere, in costume del ‘700 ? Cosa non darei per tornare anche solo per un attimo indietro nel tempo e nascondermi dietro ai grandi tronchi. Osservare Byron, mentre scrive sulle sue passeggiate romane, o Asprucci, che finisce uno disegno, o ancora i ragazzi della Repubblica Romana, giunti da ogni parte prima di morire, per l’Italia che verrà, nell’ultima resistenza di Roma. O la verità su vecchie storie, come quella della fanciulla romana rinvenuta intatta nel suo sepolcro nel 1500 e seppellita in luogo segreto, qui vicino, per evitare paure e leggende.
Ma “Villa” non è dei fantasmi. Per i bambini ha sempre rappresentato corse, giochi, allegria, biciclette.
Quando, ormai adulto, sono tornato a tirar calci a un pallone con figli e i nipoti, ho avvertito quel sentimento profondo e malinconico, ma anche il senso del ritorno.
Si, sono tornato, cara “Villa”, tornato coi miei nonni, mia madre, ripensando al bimbo che ero, ma forse sono tornato dentro di me, nell’uomo di oggi. Un ritorno che mi aiuta a capire come la strada di ognuno di noi sia un sentiero a volte tortuoso, pesante, incerto, perché attraversa luoghi sconosciuti, panorami inattesi, ma torna sempre al punto di partenza.
Non importa se a Villa Borghese o in un altro luogo: quel posto, alla fine, è dentro di noi ed è chiaro, nitido, preciso perché è lì che ritroviamo la nostra storia, gli affetti, le persone a cui abbiamo voluto bene e che ci hanno amato.
Massimo Santucci
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- “Caduti alle Fosse Ardeatine del Municipio II” di Armando Bussi
- “Il Civico Giusto” di Elena Cipriani
- “Il Flâneur racconta …” di Caterina Loredana Mammola
- “L’Acqua Acetosa e Gigi Riva” di Luciano Valle
- “La Madonnina di guerra” di Maurizio Rocco Lazzari
- “Passeggiando al Pincio” di Maria Grazia Toniolo
Nei dintorni (per vedere i Punti di Interesse in zona, clicca su MAPPA): MAPPA della Zona Pinciano 3 (quartiere dei Musicisti)
“L’Acqua Acetosa e Gigi Riva” di Luciano Valle
RACCONTO DEL FLANEUR ROMA2PASS PUBBLICATO IL 23 MARZO 2024.
Penso che a tutti noi, almeno una volta, sia capitato di entrare nel centro sportivo dell’Acqua Acetosa, come comunemente viene chiamato, dal nome della zona in cui sorge. E’ un insieme di palestre, piscine e campi di calcio, rugby, pallacanestro, pallamano, pallavolo, hockey e perfino badminton, realizzato, su progetto dell’architetto Annibale Vitellozzi, per volere dell’allora presidente del CONI Giulio Onesti (a cui è dedicato) dopo l’assegnazione dei Giochi olimpici alla città di Roma, e inaugurato, con encomiabile e rimpianta puntualità, proprio nel 1960. Continue reading
La Madonnina di guerra
18/02/2024 – Passeggiando tra le strade del Quartiere Trieste, all’angolo tra Via Chiana e Via Tagliamento, ci si imbatte in una grande edicola con un altare e un mosaico raffigurante la Madonna del Divino Amore. Cosi inizia “La Madonnina di guerra” di Maurizio Rocco Lazzari, l’ultimo dei Racconti del Flaneur pubblicato oggi sul sito Roma2pass. Il racconto è breve ma vuole “accendere una luce” su una edicola sacra che sta lì da ottant’anni e nessuno più si degna di fermarsi a quell’angolo per una rapida preghiera o semplicemente a meditare un attimo su quegli anni difficili vissuti da i ns. genitori o dai nostri nonni. Leggi “La Madonnina di guerra” di Maurizio Rocco Lazzari.