Il Tennis Club Parioli è il più noto dei luoghi di Roma in cui si pratica il tennis e ha la sede sotto Monte Antenne, in largo Uberto de Morpurgo 2, nel triangolo di terra tra la via Olimpica, via Salaria e via del Ponte Salario. Al circolo Parioli sono legati nomi di campioni del tennis italiano come Nicola Pietrangeli e Adriano Panatta.
Cominceremo col raccontare la storia del piccolo fabbricato di legno che sorse agli inizi del secolo tra la via Flaminia e i declivi occidentali di Villa Glori, tra i prati silenziosi e fragranti di quella scarmigliata periferia romana, non ancora città, quasi campagna. Aragno, titolare del celebre caffè, il figlio del maestro Mascagni, Ilo Nunes, i fratelli Serventi e Millo Nathan si ritrovarono un giorno ad affondare le scarpe nel fogliame morto dei platani di viale Tiziano, dove più fresca si posava l’ombra dei rami, per misurare il terreno dove avevano deciso di far nascere il Parioli. Le aree a nord di Roma erano state destinate a soddisfare le esigenze degli sportivi. Alcuni circoli di canottieri erano già sorti sulle sponde del Tevere e dell’Aniene. Per giocare a tennis ci volevano spazi più grandi e sotto la collina del Monte Parioli esistevano già i progetti di alcuni insediamenti come l’ippodromo, il campo di calcio del Roman, la Rondinella, che ospiterà le partite della Lazio e il futuro Stadio Nazionale. Qui prese corpo il Parioli, in una baracca di quaranta metri quadrati, compresi gli spogliatoi per uomini e signore, docce fredde e spifferi spartani che entravano da tutte le parti, fischiando fra le fessure del tavolato. E il nuovo club, nacque subito con uno stile moderno e con una apertura di vedute che lo caratterizzava da tutti gli altri circoli di Roma.
Sin dagli inizi il circolo vuole caratterizzarsi come assolutamente nuovo, accettando tra i suoi soci anche le donne, decisione che all’epoca venne considerata come una provocazione. Attorno alla sgangherata casina di legno sorgono quattro campi approssimativi e un largo spiazzo erboso dove i soci giocavano al calcio. Il fuoco sotto le caldaie assicura l’acqua calda. Ma spesso il fumo filtrava nelle docce, costringendo i malcapitati a fuggire all’aperto, con gli occhi lucidi e il corpo insaponato. Eppure in quella baracca Riccardo Sabbadini, i fratelli Maraini, Ulrico Arnaldi e tanti altri ballarono mazurche e quadriglie e videro lampeggiare sorrisi di donna, dietro ventagli preziosi e impalpabili, davanti a corteggiatori col cappello duro, il bastone e un brillante di famiglia sulla cravatta.
Per arrivare al circolo conveniva basta prendere un tram a cavalli, che da piazza Venezia, percorrendo il Corso, porta a piazza del Popolo e poi a ponte Milvio. Ma arriva presto il tram elettrico, che transita come una scossa di terremoto per le strade polverose e piene di sassi.
Allora era campione d’Italia di tennis il conte Gino De Martino, che aveva fondato con altri suoi amici dell’aristocrazia romana, il Circolo Tennis Roma, con sede e tre campi a piazzale Flaminio, dove oggi c’è la casina del bar con l’orologio. Il Circolo era molto chiuso ed esclusivo. Era quasi impossibile entrarvi e fu questa la ragione per cui nacque il Parioli. De Martino era un giocatore eccellente, tanto da figurare, ai suoi tempi, tra i primi cinque tennisti del mondo. Era anche un atleta perfetto, che si allenava due ore al giorno, padrone di sé e misurato in ogni suo colpo. Il tennis rappresentava la sua grande passione. Non solo lo giocava con maestria, ma faceva di tutto per farlo praticare e conoscere, tanto che due suoi figli, James e Gingi, diventeranno anni dopo campioni italiani di doppio. Gino De Martino propagandava lo sport anche con scommesse bizzarre, come quella di inforcare una bicicletta e gettarsi tutto vestito nel Tevere, il giorno di Capodanno. Il Parioli era ormai nato da undici anni. L’Italia era impegnata con tutte le sue giovani energie, nella Grande Guerra.
Erano i giorni cupi della rotta di Caporetto. Combinazione volle che in seguito ad una disfatta del Paese il Parioli acquisisse un grande campione. C’era un ragazzo, che abitava nello stesso palazzo di Gino De Martino e che aveva stretto amicizia col giovane Giorgio De Stefani, appena giunto a Roma con la famiglia, in fuga dal Veneto dopo che gli austriaci avevano sfondato il fronte. De Martino si era costruito un campo da tennis nel cortile della sua abitazione, per giocarvi con i suoi due figli. Il poter osservare da vicino quel suo stile piacevole e naturale, usufruire dei suoi consigli, soprattutto riuscire a giocare qualche volta con lui, fecero nascere la passione del tennis in Giorgio De Stefani, che sarebbe diventato più tardi il successore del suo maestro al vertice del tennis italiano. Il giovane De Stefani era tormentato dai dubbi circa il suo stile a due mani. Ambidestro naturale, aveva iniziato a giocare impugnando la racchetta con la destra e con la sinistra. In pratica possedeva due diritti e aveva rinunciato ad eseguire il rovescio.
De Stefani, grazie ai consigli di Gino De Martino, diventò il più grande giocatore ambidestro di tutta la storia del tennis. Nascevano dunque i primi competenti di uno sport che chiamava ancora gli arbitri umpires, i giudici di linea linesman, mentre era quasi un disonore chiamare soltanto out una palla finita fuori. Bisognava dire outside, come consigliava il manualetto del maggiore Wingfield.
Figuriamoci se poi qualcuno avesse urlato magari un no secco e sgarbato. Non era snobismo. Il tennis era uno sport in cui la forma era considerata sostanza stessa del gioco. Questo determinò la sua fortuna tra gli sportivi puri. Questo fece sì che difendesse il suo dilettantismo sino a quando l’universo consumistico non gli cadde addosso, cambiandogli i connotati.
Intanto si andava mettendo in luce a livello nazionale il primo grande campione del Parioli: Riccardo Sabbadini, il più bel rovescio d’Italia, a detta dei cronisti di allora. Sabbadini, di corporatura massiccia e del tutto dissimile da quella di un atleta, aveva però un rovescio d’attacco teso, forte, piazzatissimo, eseguito con una velocità che lo rendeva spesso imprendibile. Per effettuare al meglio questo suo colpo micidiale, raccontano che Riccardone si spostasse tutto sul bordo destro del campo, per costringere l’avversario a subire la sua arma migliore. Sabbadini ebbe il grande merito di favorire l’iscrizione al Parioli di Giorgio De Stefani, che non aveva ancora l’età per diventare socio. Lo vide giocare e gli disse: “Tu, ragazzo, hai stoffa” e non gli chiese il certificato di nascita, presentandolo e garantendo per lui. De Stefani, che studiava al Nazareno, cominciò così a frequentare i nostri campi, facendo a gomitate per cambiarsi gli indumenti nello spogliatoio e aspettando il turno per l’unica doccia, che veniva prenotata versando al custode una lira per la fascina di legno necessaria a riscaldare l’acqua della caldaia.
Un altro giocatore di grande talento, tra i pionieri del Circolo, fu Clemente Serventi. Era l’amico del cuore di Giorgio De Stefani, che prelevava tutti i giorni all’albergo Eden (in cima a via Francesco Crispi), per correre con lui in motocicletta al Parioli, attraverso villa Borghese, piazza del Popolo e via Flaminia. La famiglia De Stefani, fuggita in tutta fretta dal Veneto per i casi della Grande Guerra, aveva trovato rifugio provvisorio all’Eden, in attesa di scegliere l’abitazione definitiva ove sistemare la sua residenza. E in quell’Eden ci restò per vent’anni. Ma diciamo di Serventi, che era uno sportivo di razza, abile in molte discipline agonistiche. Il suo curriculum di canottiere era, ad esempio, tra i più brillanti in una disciplina che pure annoverava, a Roma, molti campioni. Tennisticamente possedeva tutti i colpi, senza che nessuno spiccasse in modo particolare sugli altri. La sua arma principale era la regolarità, che si sposava perfettamente ad un carattere tenace, costante, irriducibile. Aveva una grinta di ferro, che gli consentì più tardi, a quarant’anni suonati, di bissare il titolo di Campione d’Italia contro avversari molto più giovani di lui e quotatissimi sulla scena nazionale. Insomma, quando tutti sotto il profilo agonistico lo davano ormai per finito, seppe togliersi la soddisfazione più grande che mai possa toccare ad un uomo di sport.
Non possiamo chiudere questa galleria riservata agli antenati senza citare Uberto De Morpurgo che fu, negli anni Venti, l’alfiere del tennis italiano nel mondo, legato al Parioli da un fitto intrico di relazioni e di amicizie. De Morpurgo era nato a Trieste da madre inglese, quando la città faceva ancora parte dell’Austria. Aveva studiato ad Oxford, diventando per le sue doti un blu del tennis, definizione riservata ai campioni. Più tardi prese la residenza a Parigi e fu proprio in quegli anni che De Stefani lo vide vincere un torneo a Territet e, incuriosito dal nome, gli chiese se fosse italiano, mentre si faceva firmare un autografo. “Non, je suis tchecoslovaque”, rispose il barone. Ma dopo che De Stefaniebbe riferito questo episodio ai soci del Parioli, De Morpurgo si vide proporre un passaporto italiano, rivelandosi subito un gran giocatore da torneo. La sua affermazione più brillante in quegli anni fu la medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Parigi, dove chiese al Conte Bonacossa di presentargli il …suo compagno di squadra Clemente Serventi. Allora l’etichetta era d’obbligo, soprattutto tra gli sportivi. Solo nel 1930 De Stefani riuscì a battere per la prima volta De Morpurgo, considerato un tabù per tutti i nostri migliori giocatori.
Il numero uno del tennis italiano perse contro la giovane promessa in un torneo in cui il grande Tilden era stato già eliminato e De Morpurgo si riteneva già sicuro della vittoria finale. Insomma digerì male quella sconfitta e da quel giorno tolse persino il saluto a De Stefani, che anni dopo gliene chiese il motivo e si sentì rispondere: “Non avresti dovuto mancare di rispetto al tuo maestro, senza del quale non saresti mai diventato un buon giocatore”. L’era di Uberto De Morpurgo iniziò nel 1925 e terminò nel 1933, quando il barone triestino venne battuto in tre set, sia da Perry che da Austin, in Coppa Davis contro la Gran Bretagna. Resta per tutti un campione dalla classe purissima, che sapeva piegare gli avversari con la sua grande forza di volontà. Dopo di lui fu il momento di Giorgio De Stefani e del suo stile particolare che gli faceva passare la racchetta da una mano all’altra con grande maestria. De Stefani soffriva gli avversari che ricorrevano al gioco tagliato, mentre era irresistibile con chi gli tirava la palla tesa.
Ormai il Parioli, per il prestigio dei suoi campioni, per i personaggi rappresentativi che figuravano tra i soci, per lo stile dei suoi dirigenti, aveva conquistato un posto di rilievo nella società italiana. Era il Club più moderno, più aperto alle cose nuove, più ambizioso. Il suo nome non si limitava a brillare in un orizzonte romano, come i più rinomati circoli della Capitale, ma spaziava in un ambito internazionale, grazie alla classe e alle vittorie dei suoi campioni. Si delineò quindi l’esigenza di una sede finalmente rappresentativa, al posto della romantica baracca di legno che aveva ospitato i soci pionieri. E così, nel 1927, per interessamento del marchese Giorgio Guglielmi, presidente del Circolo, venne costruita la palazzina liberty che ancora oggi si può osservare in viale Tiziano. Il Comitato direttivo, con la collaborazione di tutti i soci, studiò un piano finanziario per raccogliere i fondi. Attorno al progetto ci fu tutto un fervore di riunioni private, assemblee, consigli e pareri degli esperti, finché il progetto definitivo venne approvato all’unanimità e si passò a discutere il finanziamento dell’opera nel corso di una storica assemblea straordinaria, nel corso della quale il Presidente espose le decisioni del Comitato direttivo: “I soci dovranno pagare 20 lire mensili a testa, sino alla completa estinzione del debito”. Alcuni soci insorsero contro questo programma, sostenendo che non era elegante far pagare la quota extra anche alle signore. “Pagheremo noi uomini per loro”. E la cavalleresca proposta venne accolta all’unanimità, con un più caloroso battimani di coloro che avevano mogli e figlie a carico. Questo per ricordare lo spirito generoso che caratterizzava lo stile di quelle assemblee. E così, grazie ad un notevole sacrificio finanziario dei vecchi soci, la nuova sede fu inaugurata dal Governatore di Roma Ludovico Potenziani. Il ricevimento cui parteciparono tutte le massime autorità sportive e civili, venne seguito da un ballo che fece epoca.
Il Parioli assunse finalmente una veste degna del suo prestigio sociale e sportivo. Si costruì anche la tribuna centrale e venne addirittura assunto un custode-allenatore nella persona di Giovanni Palmieri. Sulla terrazza della nuova palazzina, in occasione di una fortuita sosta prima di una parata militare che si sarebbe svolta al Foro Italico, Benito Mussolini dette un giorno uno sguardo all’attività che si svolgeva sui campi sottostanti, dicendo: “Questo gioco, inventato dagli inglesi, non mi piace e non lo capisco”. Augusto Turati, presidente della F.I.T. ebbe il coraggio di rispondergli secco: “Duce, forse non vi piace perché non lo capite”, prendendosi di rimando un’occhiataccia irritata. Qualche giorno più tardi il custode del Parioli fu chiamato a Villa Torlonia, residenza privata della famiglia Mussolini, e gli fu dato mandato di costruire un campo da tennis per i figli del Duce. Qualche anno dopo, all’inaugurazione dei campi del Foro Italico, Augusto Turati, preoccupato se sostare o meno davanti ai campi da tennis, restò stupefatto nel sentir dire al Duce: “Magnifico sport! Lo pratico anch’io”. La frase pronunciata dallo stesso Turati sulla terrazza del Parioli aveva fatto effetto, anche con il contributo dei figli di Mussolini che giocavano a tennis con il terzino della Roma e campione del mondo Eraldo Monzeglio. Nessuno, da quel giorno, parlò più in Italia del tennis come lo sport con l’erre moscia.
Tra i campioni più grandi che figurano nell’Albo d’Oro del Parioli un posto di notevole prestigio lo merita Giovanni Palmieri. Piccolo, asciutto, scuro di pelle, Palmieri era un fascio di nervi. Il suo fisico d’acciaio, capace di una resistenza leggendaria alla fatica e allo stress, era cementato da una volontà di ferro. Aveva un viso da povero, illuminato dalla genuina freschezza che traspariva da uno spontaneo sorriso. Questo giocatore era uscito, come una pietra intatta, dalla sua umile condizione di raccattapalle. Dopo aver svolto il servizio militare in Cirenaica, era diventato custode e allenatore del Circolo, rivelando una selvatica virginità d’atleta e una travolgente forza vitale. A contatto giornaliero con i più forti giocatori del suo tempo, che militavano nella squadra del Parioli e che spesso lo volevano in campo per allenarsi con lui, il suo stile tennistico si arricchì al punto da far brillare la scintilla della classe, rivelando a tutti il campione che stava nascendo in lui. Il suo gioco si fece sempre più sicuro e completo, tanto che diventava sempre più frequente il caso in cui Sabbadini, De Stefani, Serventi e De Morpurgo venissero battuti in allenamento da lui. Fu allora che il ministro Lessona, diventato presidente della F.I.T., decise di riqualificarlo come dilettante, convincendolo ad intraprendere la carriera del giocatore. Palmieri, quando fu convinto a fare quel salto nel buio, aveva 25 anni e nessuno poteva sapere, neppure lui, come avrebbe reagito al clima agonistico, contro avversari conosciuti e di classe superlativa. L’ex maestro del Parioli debuttò nell’incontro Milano-Roma, disputato nel dicembre del 1931, a Milano, su campi coperti. E subito si impose sia a Gaslini che a Rado, che facevano parte della squadra di Coppa Davis. Da quel giorno, per cinque anni, arrivò a battere i più forti giocatori del mondo, conquistando per cinque volte consecutive il titolo italiano assoluto. Il tennis italiano così, dopo le grandi vittorie ottenute nella Zona europea della Coppa Davis da De Morpurgo, De Stefani e Gaslini, conobbe anche il campione capace di catturare le folle.
La stella di Palmieri tramontò solo nel 1937, dopo che il campione del Parioli aveva battuto in pochi anni assi come Austin, Henkel, von Cramm, Menzel, Hines, Bawarowsky, Satoh, Perry, Hetch, Szigeti, Caska e tanti altri. L’egemonia di Palmieri inchiodò il tennis italiano ad un regime tecnico statico. C’era lui e basta. Dopo il suo declino, si passò ad una fase dinamica, quasi convulsa. Mentre in precedenza lo sport della racchetta si era specchiato nello stesso campione per molti anni consecutivi, nei campionati assoluti che seguirono il titolo italiano fu vinto da cinque giocatori diversi
la storia del Parioli è stata attraversata anche da innumerevoli personaggi che meritano stima e rispetto, tra di essi il più illustre: il re Gustavo V di Svezia. Magrissimo e affilato come un coltello, il sovrano nordico partecipava ai nostri tornei sotto lo pseudonimo di Mister G. Giocò quotidianamente a tennis fino ad età veneranda e amava misurarsi con i campioni che frequentavano il Parioli.
Una volta venne combinato un incontro con Mister G e Cucelli da una parte e Marcello e Rolando Del Bello dall’altra. Marcello e Rolando presero a dominare, sebbene Cucelli si prodigasse, com’era al suo solito. Visto che la partita si stava mettendo male, Mister G, dimentico d’essere un sovrano, cominciò ad appropriarsi di qualche punto decisivo, con un’autorità che non poteva essere messa in discussione. Giudicò outside con la massima disinvoltura alcune palle buonissime, con Marcello e Rolando che non avevano ovviamente il coraggio di contraddire l’augusto avversario. Ma quando Cucelli, per approfittare ulteriormente della situazione, provò a rubare anche lui qualche palla, Sua Maestà lo redarguì paternamente, battendogli la mano ossuta sulla spalla: “Non sta bene! Lei non lo può fare”. E una volta che l’ormai ottantenne sovrano non riusciva più a misurare i suoi pallonetti, con gli avversari che continuavano a schiacciare su di lui, per concedersi almeno questo vantaggio, De Stefani, per entrate meglio nella partita, gli disse: “Maestà, controlli solo la zona a sinistra”. E Gustavo V: “Ha ragione: anche il mio primo ministro me lo ripete sempre”.
Marcello Del Bello vinse il suo primo titolo italiano all’età di 19 anni, dopo aver avuto per istruttore il padre Oberdan, che aveva adottato un metodo d’insegnamento molto personale: uno schiaffone ogni qual volta Marcello non sparava sulla palla con tutte le proprie forze. Oberdan Del Bello non ammetteva le tattiche di attesa o i pallonetti. Sosteneva che per emergere nel tennis e diventare campione, bisognava prima imparare a picchiare su tutte le palle e solo in un secondo tempo a tenerle dentro le righe. Il figlio gli diede ragione. Quando Marcello era in giornata di grazia, quando i suoi colpi erano ben calibrati, il suo gioco diventava un autentico spettacolo alimentato dalla tecnica e dalla sostanza atletica. Perfettamente coordinato nei movimenti, a fondo campo e a rete, irresistibile nel gioco di volo, Marcello Del Bello risultò ai suoi tempi, sulla piazza italiana, pressoché imbattibile. Per contrasto logico, quando non era in giornata, diventava facile preda anche di un avversario inferiore.
In un giorno piovoso del novembre 1948 accadde un fatto destinato ad entrare nella storia dello sport. Sulla palazzina e sui campi di viale Tiziano la pioggia cadeva da giorni a lame uniformi, impedendo l’attività tennistica. Fu allora che alcuni soci si ribellarono e decisero di dare vita ad una partita di pallone sul campo n° 8, adiacente al campo Rondinella, sul quale si allenavano tutti i giorni i giocatori della Lazio. C’erano Carlo Bazzardi, Carlo Della Vida, Giorgio Carpi, Giuliano Scribani, Mauro Lais che procurò il pallone. Si inventarono lì per lì le regole, compresa la larghezza delle porte. I primi pali provvisori furono le spranghe del singolare per sostenere la rete, che fu naturalmente smontata. Era nato il calcetto, sport che oggi ha una forte incidenza sulle attività del tempo libero, impegnando milioni di praticanti in tutto il mondo e che il Parioli può vantarsi di avere inventato. Due settimane dopo, tra lo scandalo della maggioranza dei soci, venne varato il primo torneo della storia del calcetto. Stavolta c’erano già le porte di legno, ma per buona pace di tutti il campo destinato al calcetto fu quello n° 9, accanto alla casina del custode Ascenzio Panatta, dove due anni dopo sarebbe nato Adriano. Scesero in campo le seguenti squadre: Belve, capitanate da Mauro Lais, Marpioni, con Carlo Bazzardi e il giovane Nicola Pietrangeli, Gilda, che annoverava Nasalli Rocca e Cosentino e Sonados. Vinsero le Belve dopo un girone all’italiana con partite di andata e ritorno. Tra i protagonisti ci fu anche Carlo Palombelli, padre della giornalista Barbara, che ha poi sposato Francesco Rutelli. Tutti gli incontri vennero diretti dall’arbitro Maurelli, socio del Parioli e tra i fischietti più affermati del calcio italiano.
Intanto si stava levando alta nel cielo del tennis italiano la stella luminosa di Nicola Pietrangeli, che dopo gli esordi tennistici su un campo di concentramento della Tunisia, stava crescendo sotto gli occhi del maestro Umberto Bartoni. Le sue spalle si fecero forti, pur restando, come tutti i veri campioni, ancorato ad un mondo di pura fantasia. Mi raccontò il padre di Nicola, il leggendario Monsieur, che non credeva alle possibilità di suo figlio, proprio per quel suo modo troppo personale di giocare i colpi. Fu Umberto Bartoni a convincerlo, facendolo assistere ad una partita di Nicola da un punto d’osservazione riparato, dietro le siepi che recingevano il campo. “Vedi, gli spiegò Bartoni, adesso il manuale del tennista avrebbe suggerito di giocare il rovescio in un modo diverso. Nicola s’è inventato un colpo tutto suo e ha chiuso il punto. Lo osservo da mesi. Il tuo ragazzo ha dentro di sé l’istinto del colpo vincente. Diventerà un campione proprio perché non fa quello che fanno tutti, anche i migliori”. Effettivamente Nicola sembrava toccato dalla mano di un qualche dio dello sport in giornata di grazia. Solo che, come accade in queste faccende divine, l’artefice misterioso, per distrazione o cattiva volontà, dimenticò qualcosa. Niente di importante, solo un particolare. Quel dio pensò che, regalandogli uno stile perfetto, un fisico robusto, l’innata simpatia del perfetto gentiluomo, gli avesse dato tutto. Invece dimenticò di mettergli dentro anche la malizia, la zampata feroce del lupo cattivo. E così Nicola può vantarsi di essere stato il più grande campione buono della storia del tennis. Tutto quello che ha ottenuto sui campi rossi lo deve alla natura e all’istinto. Tutto quello che avrebbe richiesto cattiveria e sacrificio non è riuscito ad ottenerlo, perché vi rinunziava in partenza. Nicola Pietrangeli maturò completamente a venticinque anni, diventando campione d’Italia. Si fece più attento, più solido fisicamente, più autorevole nei colpi e più sicuro di sé nel gestire le partite.
Da anni i tecnici di tutto il mondo asserivano che non si poteva vedere un gioco più bello e più completo di quello di Pietrangeli. Ma i risultati conseguiti sino al 1958 non erano stati proporzionati a quegli elogi. Il 1959 fu il suo anno di grazia. Vinse, tra l’altro, i Campionati Internazionali di Francia, sia il singolare che il doppio, con Orlando Sirola: una impresa che non era mai riuscita in precedenza ad alcun tennista italiano. Intanto era nata un’altra stella, quella di Silvana Lazzarino. Silvana giocava un tennis aggraziato e intelligente, non privo di doti atletiche e di quel pizzico di frenesia che le veniva dal carattere. La prima sensazione che si aveva, nell’osservarla, era quella di uno straordinario equilibrio dei mezzi tecnici e nervosi, dell’energia racchiusa nelle geometrie che disegnava sul campo. La chimavano Minnie, ed erano il buon senso e la simpatia ad accostarla al personaggio di Disney, più che le sue forme minute. Ma era anche la regina dei vagoni letto, perché Silvana girava tutta l’Europa in treno. Non si trattava di snobismo. Aveva un sacrosanto timore dell’aereo.
E fu proprio questo il motivo principale del suo precoce ritiro dall’attività agonistica nel 1964, che pure l’aveva portata a vincere quello che nessuno altra donna aveva mai vinto nel tennis: sette titoli assoluti nel singolare, due nel doppio in coppia con Lea Pericoli, due nel doppio misto in coppia con Giorgio Fachinie Orlando Sirola. Un albo d’oro difficile da eguagliare.
Nel frattempo Roma si accingeva ad organizzare le Olimpiadi del 1960 e il Circolo venne costretto a lasciare la sua storica sede originaria in seguito ai lavori di ristrutturazione ed ampliamento dello Stadio Flaminio, del Palazzetto dello Sport e la costruzione del Villaggio Olimpico. Fu un distacco doloroso, ma inevitabile. Mentre l’attività del Circolo veniva continuata sui campi del Foro Italico, il Consiglio Direttivo, assecondando un’idea di Erberto Vaselli e valendosi della sua preziosa collaborazione, scelse per la nuova sede un ampio spazio verde confinante con Villa Ada, sotto Monte Antenne, che si trovava in stato di totale abbandono, tanto che veniva utilizzato come discarica. E si rivelò una scelta felice, perché il Parioli, senza discostarsi dalla zona di Roma che gli aveva dato il nome e quindi senza allontanarsi dalle sue radici, poté espandersi in piena libertà, restituendo dignità di giardino ad uno spazio urbano, ormai pienamente inserito nel panorama cittadino.
Testo tratto da un articolo di Lino Cascioli pubblicato sul sito del circolo www.tcparioli.it/
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