Al centro del Parco di Villa Glori, sul piazzale del Mandorlo, c’è il monumento al sacrificio di Enrico Cairoli.
Nel 1867 sui monti Parioli, un paio di chilometri fuori Porta del Popolo, sul colle oggi chiamato Villa Glori, ci fu un sanguinoso scontro fra forze pontificie ben armate e 78 garibaldini che tentavano di entrare in Roma per suscitarne l’insurrezione armata.
I garibaldini, capeggiati da Enrico Cairoli, erano partiti da Terni il 20 ottobre. A Passo Corese si erano imbarcati per iniziare la discesa lungo il Tevere. All’una di notte del 23 ottobre si fermarono, appena dopo la confluenza del Tevere con l’Aniene, aspettando notizie da Roma circa una prevista insurrezione del popolo contro il potere pontificio e i francesi che lo difendevano. All’alba, visto che nessuna notizia di insurrezione era giunta, salirono sulla la collina coltivata a vigna davanti a loro, fino ad arrivare al casale Glori.
Poche ore dopo arrivò una compagnia di militari pontifici, nutrita e ben armata. Il conflitto che ne segui fu durissimo. Al valore dei volontari si contrappose l’efficacia delle armi dei pontifici e la loro forte tensione emotiva causata dall’attentato del giorno precedente alla caserma Serristori.
Enrico cadde colpito a morte, il fratello Giovanni fu ferito gravemente, ma riuscì a raggiungere la casa del vignaiolo, dove, insieme con altri compagni, poté ricevere le prime cure. Gli assalitori furono costretti a retrocedere, spaventati dall’audacia dei volontari e convinti che questi fossero solo l’avanguardia di un corpo di spedizione assai più nutrito. Quando tornarono, il giorno dopo, in forze, trovarono solo i feriti e quei pochi che erano rimasti con loro. Giovanni fu fatto prigioniero, ma liberato due mesi dopo. Rientrò a Pavia, sua città natale, dove fu eletto consigliere comunale. Ma le ferite subite avevano irrimediabilmente compromesso la sua salute e mori due anni dopo appena 27 anni.
La Società dei Reduci dalle Patrie Battaglie, fin dalla sua fondazione, nel 1871, ebbe sempre la massima cura di quel sacro luogo, preoccupandosi anche del mantenimento del mandorlo presso il quale era caduto Enrico Cairoli. A questa Società si deve il monumento che fu eretto davanti all’ albero. L’iniziativa era partita da un gruppetto di superstiti della vigna Glori, che avevano dato vita a una sottoscrizione per collocare “un sasso o un cippo a memoria dell’impresa” nel campo ove, nella mischia, caddero i Cairoli, Moruzzi e Mantovan, e vennero feriti Mosetig, Papazzoni, Bassini, Ferrari, Castagnini e altri. L’8 dicembre del 1882 Francesco Casanova avvertiva con una lettera il prof. Baccio Emanuele Maineri”, patriota e scrittore, di avergli rimesso a tale scopo un libretto postale con 200 lire, raccolte a Pavia da Urbano Pavesi e a Mirandola da Giovanni Tabacchi, con una sua offerta personale, cui si aggiunsero altre 15 lire sempre da Pavia. Da parte sua il prof. Maineri comunicava al Consiglio Direttivo della Società dei Reduci, di cui era socio di voler devolvere al progetto il guadagno derivato dalla vendita di un suo libretto sul monumento ai fratelli Cairoli che stava per essere eretto al Pincio, ottenendone una risposta piena di entusiasmo: “Sempre generoso e caldissimo di amore patrio, voi ci dite che il ricavo dell’opuscolo, salve le spese di stampa, è destinato a far sorgere in vicinanza del mandorlo ove caddero Enrico e Giovanni Cairoli, un cippo che ricordi per sempre “quei 78 gagliardi che videro le calcagna di due compagnie di soldatesche papaline”. Bravo, e mille volte bravo, prot. Maineri; e noi, per nostra parte, vi promettiamo tutto il nostro povero appoggio, perché la santa idea si traduca in fatto”.
I sottoscrittori si incontrano a Roma nel 1883, all’inaugurazione del monumento del Pincio, con l’intento di costituire un comitato per la memoria di Villa Glori, alla cui presidenza vollero Maineri. L’onere della realizzazione passò alla Società dei Reduci, che poteva contare su buone aderenze ufficiali e riuscì a ottenere importanti donazioni, dando un carattere ufficiale all’opera e rendendola possibile con una spesa minima. II ministero dell’Istruzione aveva intatti donato un’antica colonna di marmo rosso di Pietrasanta alta 7 metri e del diametro di 75 centimetri, recuperata dal Tevere nel 1871. Per la base della colonna la Commissione archeologica comunale di Roma aveva consegnato alla Società dei reduci un blocco di marmo, concesso dalla Giunta comunale con deliberazione del 24 agosto 1895. Per formare la scogliera alla base del monumento il Comune di Roma diede un enorme blocco di travertino che giaceva presso l’Orto Botanico che venne diviso in 140 pezzi.
Alla Società non rimaneva altro che assemblare il monumento, progettato dall’ing. Carlo Meyer, porre la lapide e organizzare la cerimonia di inaugurazione, inserita nel programma delle celebrazioni del venticinquesimo anniversario della Breccia di Porta Pia.
Significativo il luogo scelto per l’innalzamento. Solitamente si indica sotto al mandorlo ormai secco e completamente sgretolato il punto in cui Enrico cadde ferito a morte insieme con il fratello. Di tutt’altro avviso l’ingegner Ernesto Papazzonio, testimone oculare e partecipante allo scontro, che nel 1883 scriveva al prof. Maineri: “Posso assicurare che il povero Enrico non mori sotto il mandorlo, ma bensì nella direzione del mandorlo, a una ventina di metri dalla stradella. Le ho comunicato questo, sicuro di non errare, avendo avuto la fortuna di assistere alla lunga e dolorosa agonia del mio valoroso Comandante. Cinque o sei anni or sono, ebbi l’opportunità di recarmi a visitare quel sacro luogo, e potei trovare e baciare la zolla, che fu bagnata del sangue dei fratelli Cairoli”.
Tale particolare è confermato dalla Gazzetta Ufficiale del 5 settembre 1895, che specifica: “Il monumento sorge a 15 metri dallo storico mandorlo e precisamente nel luogo ove Enrico Cairoli cadde ucciso dagli zuavi pontifici”.
I quotidiani italiani diedero grande risalto all’inaugurazione, che si tenne il 24 settembre 1895, alle ore 17, fornendone molti particolari. Vi intervennero il sindaco con la Giunta, Menotti Garibaldi, presidente della Società dei Reduci, rappresentanze di varie Associazioni, con 18 bandiere e la banda di Vallerano. In complesso era presente un migliaio di persone, anche se all’ultimo minuto non avevano voluto partecipare quattro Società repubblicane, tra cui il Circolo Giuditta Tavani e il Circolo Mazzini, che avevano ritenuto la cerimonia troppo ufficiale.
Appena giunse il corteo, che si era formato fuori Porta del Popolo, i garibaldini presero “quasi d’assalto la scogliera su cui s’innalza la colonna, producendo un effetto colorito e bello. Su quella stessa scogliera era stata posta la lapide della Società dei Reduci, con un’inesattezza nella data dello scontro: AI VALOROSI CHE QUI PUGNARONO PER ROMA IL 28 OTTOBRE 1867
Sul piazzale era stato costruito un semplice palco in cui prendevano posto il sindaco Emanuele Ruspoli, Menotti Garibaldi, Ernesto Nathan, gli onorevoli Socci e Mazza, il generale Türr, festeggiato dai vecchi commilitoni. Socci pronunciò un breve ma toccante discorso, in cui paragonava il saluto che Enrico Cairoli mentre spirava aveva mandato a sua madre con la frase di Garibaldi morente, che credeva di rivedere le sue bambine in due capinere. Socci parlò della donna nell’epopea garibaldina, salutando Adelaide Cairoli, Colomba Antonietti, Giuditta Arquati e Anita Garibaldi. Raccomandò di non scambiare mai la tradizione garibaldina con la violenza, simbolo di vigliaccheria. Aggiunse un garbato ma applauditissimo accenno irredentista, un omaggio a Guglielmo Oberdan: “Senza voler fare della politica, permettetemi di ricordarvi in quest’ora un giovane biondo e sconosciuto e bello come arcangelo gentile, come strofa alata, che vedemmo commosso salire a baciare quel mandorlo”,
La folla avrebbe voluto ascoltare anche qualche parola da Menotti Garibaldi, ma questi si dichiarò troppo commosso per parlare. Dopo brevi interventi di Emanuele Ruspoli, del sindaco di Pavia e del senatore Francesco Cucchi, la riunione si sciolse senza incidenti, sulle note dell’Inno di Garibaldi. Gli intervenuti si mossero per visitare il teatro della mischia. Tutti si recarono presso il mandorlo, circondato da una cancellata di ferro entro la quale crescevano rose e oleandri. “Su tutto quel gran formicolare di persone – concludeva il ‘Corriere della Sera – quel fiume di camicie rosse e di bandiere, il sole del tramonto manda i suoi raggi di porpora e d’oro.
La seconda lapide che si trova sul monumento risale all’ottobre del 1914 e fu scoperta nel corso dell’annuale celebrazione del fatto d’arme dopo un discorso del presidente della Società dei Reduci.
Fonte: estratto da un articolo di Cinzia dal Maso
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