C’è un’affascinante storia d’amore del primo novecento italiano, quasi sconosciuta, forse perché solo la protagonista femminile della coppia avrebbe col tempo acquisito una notorietà di poetessa e scrittrice che ancora dura e si rinnova. Giovanni Cena e Rita Faccio, dopo essersi conosciuti in Piemonte dove ambedue erano nati, si erano rincontrati a Roma per motivi di lavoro, lei ventisettenne, lui sei anni di più. Cena, redattore di una rivista di critica letteraria, La Nuova Antologia, le aveva offerto di collaborare e, in poco tempo, il rapporto si era trasformato in amore e nella convivenza in un appartamento in via Flaminia 43, in un edificio a pochi passi da piazza del Popolo ma che allora era l’ultimo prima della campagna. Venivano da esperienze completamente diverse. Cena aveva seguito quasi tutto un corso di studi universitari, aveva viaggiato in Europa come giornalista ed era inserito nell’intelligenza locale, Rita invece aveva avuto un passato doloroso: stuprata all’età di 15 anni da un impiegato dell’azienda del padre, aveva dovuto accettare il matrimonio riparatore e le era nato un figlio. Ma il maschilismo e la protervia dell’uomo, che la trattava come un oggetto, l’avevano costretta ad abbandonare tutto, fuggendo di notte. Autodidatta nel senso più completo del termine, aveva mostrato sin da giovanissima grande sensibilità e spiccata attitudine allo scrivere, al punto tale che quest’attività era divenuta per lei imprescindibile.
Già nei primi mesi di vita in comune, Cena rappresentava per lei la guida sicura, il punto di riferimento, l’ancora di salvezza. Le aveva dato un nome nuovo, coniato in una bella poesia a lei dedicata, di cui riportiamo alcuni versi: “ Io la scopersi e la chiamai Sibilla./ L’agile corpo e la capigliatura/attorta e tutta la persona bella /vibrano e sotto un soffio ignoto e vivo./Palpita in lei l’umanità futura.” Parole molto espressive nel disegnare le basi del suo trasporto, che Sibilla apprezzava soprattutto nell’ultimo verso dove era riconosciuto il suo modo innovatore di vivere il confronto uomo-donna, modo che, stranamente, non si sarebbe più ripetuto negli innumerevoli amori della sua vita (in quello appassionato ma contrastato con Dino Campana(2) già in preda ai disturbi psichiatrici, il poeta s’infuriava nel leggere il primo verso della poesia, come se parte di lei fosse appartenuta ad un altro ). Giovanni le diede anche un cognome d’arte, Aleràmo, cavalleresco signore medioevale, citato nella poesia “Piemonte” di Giosuè Carducci : “… il dolce Mondovì ridente/ e l’esultante di castella e vigne/ suol d’Aleramo”.
Egli la stimolava, oltre che nella stesura del suo primo romanzo “Una donna” (tra l’altro senza remore nei riguardi della scabrosità della trama), soprattutto nella nuova attività intrapresa in favore del riscatto femminile. Giovanni aveva infatti grande interesse per questo problema, il miglioramento della condizione femminile era tra i motivi del libro che stava preparando, “Gli ammonitori”. Ma lo scriveva molto lentamente, tanto che fu pubblicato diverso tempo dopo quello di Sibilla (un’altra differenza fu rappresentata dal successo editoriale solo di “Una donna”, testo che tuttora viene letto ed apprezzato). Se Sibilla era una donna intraprendente, sicura, emancipata, Giovanni era riflessivo, mite, discreto, incapace di far male a qualcuno, profondamente umano. A un certo punto cominciò a dedicarsi ai più poveri, ai derelitti, ai senza lavoro, agli analfabeti. Una volta si dichiarò felice per aver regalato a un falegname gli utensili del mestiere che gli erano stati rubati, era molto sensibile allo spettacolo di gente malvestita o che chiedeva l’elemosina.
Si recava frequentemente nell’agro pontino, dove, resosi conto della condizione sociale quasi selvaggia in cui vivevano i contadini, si era messo ad organizzare e svolgere, insieme a Sibilla e altri, corsi di studio contro l’analfabetismo. Questo suo impegno lo obbligava a recarsi spesso in quei luoghi. E la cosa straordinaria era che a volte veniva accompagnato da Sibilla, disposta a condividere con lui i disagi e le fatiche di viaggi non sempre intrapresi in auto o in treno ma anche con mezzi di fortuna o addirittura in parte a piedi, con il rischio di contrarre la malaria. L’aveva seguito addirittura a Messina per dare un contributo subito dopo il terremoto, affrontando peripezie e situazioni irripetibili. Questo comportamento dell’Aleramo era il segno di un’identità intellettuale e di spirito, di un sodalizio di due anime eccezionali, unico, dove il fattore erotismo era l’ultimo a rappresentare il rapporto e l’adesione dell’uno all’altro. E c’è da considerare un elemento importante della loro relazione, che Sibilla, pur capace di esprimere gran personalità, senso di libertà e spregiudicatezza, si mostrava quasi dipendente da Giovanni di cui seguiva da vicino le iniziative in campo sociale, a conferma dell’influsso e dell’ascendente di lui, che lei non rifiutava pur essendo la seguace di un femminismo esasperato. Forse l’avversione maturata contro il “maschio” si andava trasformando in un’accettazione e quasi necessità di avere vicino un soggetto che fosse all’opposto dello squallido protagonista della sua giovinezza.
Il loro rapporto tranquillo e costruttivo consentiva la frequentazione del jet-set letterario romano, nel quale Cena era ben introdotto e non facevano mistero della forza del loro legame, lo sublimavano e ne accennavano spesso nella corrispondenza con gli amici. Mentre finora non è noto se ci sia stato un carteggio Cena-Aleramo (ma forse non ce n’era stata l’opportunità avendo vissuto sempre vicini l’uno all’altra), esistono tante lettere scritte ad amici comuni dall’uno a proposito dell’altra e viceversa. Tanto per citarne alcune, Giovanni confida al suo amico Giuseppe Pellizza da Volpedo (pittore famoso per il quadro “Quarto stato”) che aveva avuto parecchie donne e credeva di avere amato ma dopo aver conosciuto Sibilla si era reso conto che non era così! Sibilla dal canto suo racconta particolari del suo menage con Giovanni, ad esempio a Edouard Rod, un intellettuale franco-svizzero amico di entrambi “La conversazione, la lettura, le frequentazioni e i viaggi hanno la prevalenza su tutto, anche se Cena è ingolfato più che mai nel lavoro del suo romanzo lavorando continuamente a limarlo”.
La loro convivenza s’interruppe nel 1910 su iniziativa di Sibilla, nessuno dei due ha avuto modo di rivelarne le ragioni ma si può pensare che si fosse interrotto, da parte di lei, quella specie di stato onirico, quasi di plagio, cui si era abbandonata anche per troppo tempo. Risulta che Cena ebbe a soffrire fortemente del distacco, anche se aveva continuato nel suo impegno sociale fino alla morte avvenuta qualche anno dopo per una polmonite acuta. Sibilla invece si rese protagonista di una serie lunghissima di amori, veri o presunti, sempre con intellettuali, forse alla ricerca, mai più ritrovata, di un rapporto degno di tal nome ma probabilmente come affermazione di libertà e femminismo. Viaggiava tanto, con la particolarità allora inconsueta di dare attenta testimonianza di luoghi e personaggi. Negli ultimi anni si era impegnata in politica, come comunista (aveva conosciuto in passato Anna Kulishoff ) e si era recata in Russia, ma rimane poco di questa dedizione. Morirà molti anni dopo, con all’attivo una vita di alterna fortuna, altare e polvere. Verso la fine dei suoi anni, si servì per sopravvivere di un assegno destinatole da Mussolini ed ebbe una squallida relazione con un giovane poetastro, dal quale la dividevano alcuni decenni di età tanto che lui era scambiato per suo figlio e lei ne rideva.
In conclusione, questa storia brevemente accennata rappresenta un paradigma di quello che potrebbe o dovrebbe essere un rapporto tra uomo e donna e lo strano è che, pur essendosi mantenuto per circa dieci anni senza scosse e con lo stesso spirito di concordanza, ha avuto anch’esso una fine brusca, anche se determinatasi senza contrasti e senza strascichi. E sorprende che, pur non essendo il fattore erotismo tra i determinanti dell’unione, la stanchezza è arrivata quasi all’improvviso. In realtà non ne sappiamo niente, la stessa Sibilla ha fatto in seguito pochissimi accenni e poco significativi alla rottura del loro rapporto, non manifestando sentimenti di colpa, rimorsi o rimpianti ma limitandosi a tenerezza e pietà nei confronti del suo compagno. Le biografie sono piene di storie d’amore tra intellettuali, scrittori, poeti, si pensi ad esempio ad altre più conosciute Sand-De Musset, Sartre-Beauvoir, Morante-Moravia, ma nessuna di esse risulta che abbia raggiunto la stessa intensità e vicinanza di interessi. Tra Giovanni Cena e Sibilla Aleramo, tra l’altro, il coinvolgimento sentimentale si era determinato nell’ambito di uno straordinario rapporto intellettuale che fu prevalente e che ebbe una precisa autonomia, contribuendo in modo decisivo a tenerli uniti.
Carlo De Bac
(1) Dino Campana (1885-1932) era un fiorentino molto sensibile, pur avendo dato presto segni di squilibrio psichico, aveva scritto un volume di poesie, “Canti orfici”, che ebbe un discreto successo. Sibilla Aleramo, dopo averlo letto, volle conoscerne l’autore. Ne nacque una passione, durata pochi mesi e contrassegnata da litigi furiosi, proprio in occasione delle crisi dissociative di lui. Campana fu internato in manicomio e vi morì alcuni anni dopo. Il rapporto d’amore Aleramo-Campana può essere ripercorso attraverso scritti, carteggio, poesie di notevole valore letterario.
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